Anche l'impostore è un servo di Dio?
Quarantatreesima Festa del teatro, a San Miniato, con una riduzione de L'impostura (1927), di Georges Bernanos, adattato da Pascal Bonitzer e da Gerard Wajcman. La scenografia ed i costumi (di Emmanuel Peduzzi) e la regia (di Brigitte Jaques) sono gfi stessi che tanti elogi ed apprezzamenti hanno ricevuto nell'allestimento parigino del dramma, andato in scena - con gran successo - al Théatre de La Ville. Va da sé, comunque, che l'impianto scenico è stato adattato, qui, allo sfondo storico ed affascinante della Piazza del Duomo e del Palazzo svevo di San Miniato. E' sufficiente la prima scena della riduzione teatrale di Bonitzer e Wajcman (tanto il romanzo di Bernanos che il suo adattamento si dividono, suggestivamente, in quattro 'notti') a restituirci, tutta intera, la misura della modernità e quindi della presa del pensiero di Bernanos (stiamo parlando, specificatamente, del suo pensiero religioso): non si può non scorgere quanta lucida, e 'critica', e coraggiosa spegiudicatezza risiede in frasi come questa: «Non abbia paura della sensualità. [...] Malgrado ogni pregiudizio, i preti non danno alla vita sessuale che il valore di un sintomo. Quelli che ne fanno l'unico oggetto del loro esame di coscienza, siano certi di ingannarsi pesantemente». E ancora, sempre lo stesso protagonista, l'abate Cénabre, definisce senza mezzi termini il mondo cattolico «il rifugio dell'opportunismo», e il «credere in Dio, e vivere nell'indulgente obbedienza alla chiesa» «una soluzione così comoda», e una «grande occasione per un dilettante». Al di là di queste approfondite e più che coraggiose analisi, che - comunque - sono uno degli ingredienti più interessanti del romanzo bernanosiano, le quattro 'notti' de L'impostura ripercorrono i diversi lati di quella dimensione di falsità, di inganno, di finzione insidiosa e di impostura, appunto, che segna, secondo l'autore, tutta l'esistenza umana. E quest'«impostura» è, di caso in caso, di natura anche molto diversa: è il rifugiarsi nella sessuofobia e lo sfuggire ai suoi veri problemi del giovane giornalista Perrichon; è la clownerie quasi professionistica di Framboise il barbone, che si è dovuto scegliere - oramai - il mestiere del relitto umano e del bugiardo, e non può più risollevarsi dalla sua squallida condizione; è l'intrico di viscide e melliflue mene di potere dell'anziano ed insidioso Catani.
Al centro di tutto, però, c'è il drarnma del coltissimo e tormentato Cénabre: che, come il sacerdote del film di Bergman Luci d'inverno, ha perduto - irreparabilmente? - la fede (fra atroci dubbi e feroci sofferenze interiori), ma sceglie la strada dell'impostura per eccellenza, la più grande, forse: quella di continuare, lucidamente, come se niente fosse accaduto, la sua vita e la sua missione di sacerdote. Eppure, ci fa capire Bernanos, questo suo ministero falso è forse altrettanto necessario di uno convinto ed autentico, ed è chiamato - da Dio - ad occupare un posto altrettanto importante. Quasi sempre priva, nonostante tutto, di un'autentica e soddisfacente efficacia teatrale, la riduzione del romanzo (in cui si seguono, contemporaneamente, due o tre fili narrativi, compreso quello legato alla 'passione' dolorosa dell'umile curato Chevance) dà l'impressione di una serie di quadri staccati e quasi tutti piuttosto faticosi da seguire. Per di più anche la regia della Jaques, molto spesso ben curata ed attenta, conduce il gioco scenico - almeno in un paio di momenti - su toni troppo sforzati, con risultati quasi sgradevoli anche sul piano della recitazione degli attori. Fra i quali si distingue, naturalmente, il protagonista Roberto Herlitzka, che delinea una seria ed articolata evoluzione del suo personaggio, prima giocato su toni vibranti, forsennati, riarsi, poi come più posato, e stanco, simile anche a un commediante che metta in piazza - e quasi in vendita - se stesso; ed infine lucido, determinato, segnato come da una cinica e disumana decisione e energia. Al suo fianco, classica e d'alta scuola la costruzione del Guerou di Fernando Caiati, e partecipe ed impegnata quella dello Chevance di Antonio Pierfederici. Magistrale, poi - una vera e propria partecipazione straordinaria - l'apparizione, toccante, di Mario Maranzana nei panni di Framboise: all'altezza, o quasi, tutti gli altri. Applausi.
FRANCESCO TEI, Corriere di Viterbo, 21 luglio 1989
|