La recensione
Scegliere è un poco morire
Nell'esistenza di ogni uomo giunge sempre il momento in cui occorre fare una scelta, prendere una decisione definitiva che non esime però da successive scelte e da altre decisioni perché la vita è un continuo dibattersi in una serie interminabile di interrogativi a cui bisogna dare una spiegazione con il sacrificio anche di una parte di se stessi perché scegliere significa sacrificare. Soltanto chi non fa una scelta si illude di non sacrificare nulla e di poter continuare a vivere in un equivoco doppio giucco con la propria anima e con quella degli altri, ma saranno poi gli avvenimenti a scegliere per lui e allora, per chi saprà sentirla, ci sarà l'umiliazione della sconfitta più amara e più crudele appunto perché imprevista. Questo dramma della scelta costituisce il nucleo fondamentale del lavoro di Gilbert Cesbron, È mezzanotte, Dottor Schweitzer!, che è stato rappresentato ieri sera qui a San Miniato, sulla piazza del Duomo.
Un arido classificatore potrebbe anche essere tentato di definire storica la commedia di Cesbron perché oltre al personaggio di Schweitzer, uomo reale e ormai consegnato alla storia, l'autore ha chiaramente indicato in due altre figure del dramma uomini che in terra d'Africa, sia pure in campi diversi, hanno contribuito immensamente allo sviluppo della civiltà. Padre Carlo de Ferrier, e il comandante Lieuvin riproducono infatti fedelmente padre de Foucauld e Lyautey e Cesbron, con una ardita sintesi di tempo e di spazio, ha voluto riunire questi tre eroi africani in un periodo particolarmente significativo, la vigilia della guerra 1914-18, nell'ospedale di Lambaréné, costruito dal Dottor Schweitzer nel Congo Francese per curare le popolazioni indigene. La cornice esteriore non deve però trarre in inganno, racchiuse vi sono idee ben più alte e nobili che non una semplice riproduzione di avvenimenti storici. Attorno alla figura ormai leggendaria di Schweitzer si è sviluppato in questi ultimi tempi, dopo l'assegnazione al medico alsaziano del premio Nobel per la pace, un interesse generale che ha puntato forse più sui lati appariscenti della vita di quest'uomo che non sul profondo significato di quella decisione che, nel 1913, portò Schweitzer ad approdare alle terre africane. Cesbron ha superato l'immediatezza dei fatti, così come il personaggio Schweitzer ha superato il dramma della scelta, e ha portato vicende e protagonisti in un clima di sublimazione dove i contorni materiali delle cose e degli eventi sfumano per lasciare in primo piano il tormento dei pensieri e la grandezza delle anime.
Quello che succede in È mezzanotte, Dottor Schweitzer! è tutto esterno alla scena fissa dei due tempi del lavoro, avviene al di fuori ed è l'eco che ne rimbalza dentro che provoca quei conflitti spirituali che via via si sviluppano, si annodano o si sciolgono. Non bisogna credere però che sia l'ambiente a creare il dramma — la commedia non chiede soluzioni spettacolari a una atmosfera esotica — è piuttosto il contrasto tra diversi modi di concepire la vita che da forza e vigore a tutta la vicenda. La trama è semplice e si snoda in due notti consecutive nella saletta di soggiorno dell'ospedale di Lambaréné dove vivono Schweitzer e la sua infermiera Maria, una donna di trentadue anni, che ha lasciato l'Europa per una grande delusione ma che ancora si sente legata al suo vecchio mondo ed è amareggiata per una inappagata ed immensa sete di felicità. L'ospedale, con la sua piccola lampada appesa all'imbarcadero sul fiume che scorre nei pressi, è un po' come un faro che attira tutti nella regione. Vi giungono ad ogni ora del giorno e della notte i negri in cerca di aiuto; vi passa sempre padre Carlo, il missionario che conclude l'opera di Schweitzer assistendo le anime dopo che sono stati curati i corpi; vi fanno recapito, con diversi pretesti, ma per lo stesso motivo, il comandante Lieuvin e il governatore Leblanc, entrambi innamorati di Maria. Ma anche in questa piccola oasi di pace e d'amore, il frastuono del mondo esterno provoca le sue tragiche conseguenze: la guerra che è scoppiata in Europa, si ripercuote anche in Africa. Padre Carlo sarà la prima vittima dell'odio; cadrà per mano degli indigeni delle colonie tedesche, mentre sta pregando nella sua capanna senza ripari e aperta a tutti. Il dottor Schweitzer, come suddito tedesco, sarà internato e di conseguenza l'ospedale dovrebbe essere chiuso e tutta la sua opera praticamente annientata. Ma ci sarà Maria a impedire che il sublime sacrificio del dottore sia stato inutile; «colei che non aveva ancora scelto» — come affettuosamente la chiamava Schweitzer — sceglie di rimanere all'ospedale e rinuncia a seguire Lieuvin, che preferisce tornare in Francia a combattere, proprio quando l'amore sembrava prometterle il raggiungimento della felicità tanto attesa. L'unico che non potrà scegliere è il governatore Leblanc, per lui la scelta è stata fatta da altri, ora deve soltanto obbedire; e tocca a lui l'ingrato compito di condurre via Schweitzer e di spegnere la lampada sul fiume. Ancora una volta gli avvenimenti hanno scelto e l'uomo ne è stato umiliato. Cinque personaggi, cinque concezioni dell'esistenza che pur nella loro diversità a volte si intersecano e si confondono. Da una parte tre «eroi folli» come li definisce Leblanc; — Ferrier la «follia della Croce», Lieuvin la «mania di grandezza», Schweitzer quella dell'umanità — dall'altra due poveri esseri comuni alla ricerca di una felicità immediata; uno Leblanc, con i piedi molto in terra, uomo d'ordine e incapace non soltanto di concepire ma anche di capire una grande idea, l'altra Maria che, seppure ha fatto il primo passo sulla strada delle rinunce, ancora non ha avuto il coraggio di scegliere definitivamente, di dire addio per sempre al desiderio e alla speranza di tornare indietro. Su questa interessante figura di donna Cesbron ha centrato il dramma della scelta, sull'evoluzione che gradatamente porta Maria al sacrificio totale dopo essere stata sul punto di raggiungere la felicità; ed è con un colpo di scena contenuto, ma efficacissimo che Maria rivela a Schweitzer la decisione di rimanere all'ospedale. La povera donna delusa e amareggiata della notte precedente, ha capito, come le diceva Schweitzer, che la felicità è un traguardo terreno che non esiste; esiste per gli uomini, quando hanno saputo scegliere, soltanto la gioia, un traguardo spirituale che è promessa di felicità eterna. Raggiunta questa verità, la scelta non è più difficile, anche se qualche volta la carne sanguina e il cuore tenta di ribellarsi; ma c'è l'amore sublime e universale che aiuta a sopportare il peso di questa misera e piccola vita, appena una traccia di quell'altra vita che attende tutti al di là del tempo e del dolore degli uomini. Ecco perché diventa Maria la protagonista del dramma; non avrebbero mai potuto esserlo né Schweitzer, né padre Carlo perché ambedue hanno già superato i limiti di questa vita terrena, le piccole miserie di una umanità che farnetica impotente al conseguimento di mete impossibili; teatralmente parlando Schweitzer e padre Carlo sarebbero stati personaggi statici e un messaggio venuto direttamente da loro avrebbe potuto assumere il tono della predica; occorreva un intermediario e felicemente Cesbron l'ha trovato in Maria.
Era facile con un tema come questo cadere nella retorica e nei luoghi comuni, ma Cesbron ha saputo evitare sia l'una che gli altri con rigido controllo e meticolosa accuratezza e senza mai cadere nel meccanico anche se si può notare un compiacente ripetersi della battuta definitiva che è un po' tipica del vecchio teatro francese. Minuscolo, invisibile neo di un'opera che unisce mirabilmente — come ben di rado succede — nobiltà di intenti, intima forza poetica e abilità scenica non comune.
La realizzazione è stata curata e diretta da Luigi Squarzina. Il regista, forse un po' lontano dalle idee e dalle concezioni che informano il lavoro, ha tuttavia saputo inquadrare con sensibilità la vicenda, anche se più che interpretarne lo spirito ne ha sentito soltanto una specie di richiamo umanitario, come un riflesso di quella cornice di dolore e di sofferenze che circonda i personaggi; dato che per lui era impossibile trovarsi già all'interno del dramma vi è penetrato dall'esterno quasi con un grimaldello: il risultato però è stato buono ugualmente.
Fra gli interpreti la prima citazione spetta di diritto ad Elena Zareschi e a Carlo Ninchi ottimi nell'impersonificazione di Maria e di Leblanc; indubbiamente tanto la Zareschi che Ninchi sono stati aiutati nella loro fatica anche dall'autore che ha presentato due parti già «costruite», ma quello che entrambi vi hanno messo di loro per disegnare e colorire a perfezione i personaggi è stato molto e sempre nel tono e nella misura giusta. Molto più difficile era il compito di Calindri; anche perché il tipo di recitazione di questo giovane e bravissimo attore non è molto affine a un personaggio come quello di Schweitzer, ma il coscienzioso Calindri ha saputo superare abilmente gli ostacoli con quella serietà e quell'impegno che non gli hanno mai fatto difetto. Pieno d'impeto Giorgio Piazza nella parte di Lieuvin e rifugiato un po' nel convenzionale Mario Feliciani raffigurante padre Carlo.
Molto bella e funzionale la scena di Gianni Polidori, suggestive le canzoni africane cantate da Alfredo Bianchini e perfetta la riproduzione di musiche per organo eseguite dal dottor Schweitzer.
Il pubblico numerosissimo ha decretato al lavoro e ai suoi interpreti un successo cordialissimo con frequentissimi applausi al termine dei due tempi.
ANTONIO PIERANTONI, Giornale del Mattino, Firenze, 26 Agosto 1954
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