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Il Secolo d'Italia - La recensione di Mario Bernardi Guardi
 

Politica e guerra nel dna dei popoli
La pace non è la condizione normale del genere umano. La guerra e la preparazione della guerra sono i comuni denominatori della storia umana. Secoli come il diciannovesimo, quando l'Europa ha sperimentato un raro "interregnum" di relativa tranquillità tra la fine delle guerre napoleoniche e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale è raro. Il conflitto è il leitmotiv della storia. Ogni leader che pensa altrimenti si incammina verso la rovina, o almeno la rischia».
Così scrive Michael A. Ledeen in «Machiavelli. Il problema della leadership moderna», un saggio che comparirà il prossimo autunno nella collana «La Destra nel mondo», diretta da Andrea Marcigliano per Pagine. Affermazioni brutali nella loro dura schiettezza? «Realismo d'acciaio» tipico della scuola neoconservatrice? E magari il tutto a far da sostegno alla politica di potenza di George W. Bush, a quell'imperialismo a stelle e strisce che è l'indiscutibile contrassegno del nuovo millennio? Possiamo rispondere tranquillamente «sì» a tutti questi interrogativi, Inquietanti, non c'è che dire: La guerra, per dirla con Nietzsche, «sta» all'uomo come la maternità «sta» alla donna? Dunque, dobbiamo esser sempre «preparati» a farla? Ben persuasi che o si è vincitori o si è vinti, o si domina o si è dominati? Dire «è vero», fa star male, anche perché la nostra «coscienza» cristiana si ribella e non possiamo davvero ignorarla. Acquisita in due millenni, ci ha in qualche maniera «modellati»: possiamo ben dirci laici, atei, agnostici o magari gnostici o addirittura pagani; resta il fatto che l'eredità cristiana è in noi, ed è ben viva, anche se tutti i giorni cerchiamo di disfarcene.
Ma se negare il valore del magistero di Cristo e della Chiesa è impossibile, e nessuno di noi ha davvero l'intendimento di sbattezzarsi, non ci si può limitare a respingere inorriditi proposizioni come questa: «La buona volontà, il disarmo unilaterale, evitare le alleanze, insegnare a predicare la malvagità della guerra da parte di quegli Stati che (...) tentano di preservare la pace, non è di alcuna utilità. Attenzione a quelli che ritengono la guerra una cosa del passato e ci dicono di prepararci solo alla pace! Sono di gran lunga più pericolosi di quelli che, conoscendo la natura umana, si preparano per la guerra». L'ha scritto un altro neoconservatore, Donald Kagan. E Michael A. Ledeen commenta: «Chi insegue la pace ad ogni costo ma non compie i passi necessari per difendere se stesso dagli attacchi a venire, rischia ciò che Machiavelli ritiene anche più terribile della lotta: la sconfitta e la dominazione dei nemici vincitori. Se non combatti sarai sconfitto. È meglio che sia tu a vincere, perché così sarai tu a dominare; ciò significa che, almeno per un certo periodo, avrai un nemico di meno di cui preoccuparti». Flavio Vegezio Renato, scrittore di cose militari, aveva già capito tutto nel IV secolo: «Chi desidera la pace, si prepari per la guerra».
È Machiavelli? È Machiavelli. Il dramma dell'uomo consapevole. La tragedia del principe consapevole. Assumere su di sé il peso di terribili scelte. Perché la guerra, nessuno la ama; perché la pace, ognuno la desidera. A meno che... A meno che la natura umana non sia modificabile. A
meno che su di essa, soprattutto di fronte ai nuovi scenari apocalittici che ci si presentano, non si possa intervenire in qualche modo, A meno che non si riesca, se non a risolvere, almeno ad attenuare la spietata logica del conflitto; a meno che mediazioni e reciproche compensazioni non riescano a garantire equilibri, sia pure precari, entro scenari geopolitici sia pure effimeri, dai contorni definiti al millimetro, dal discutibile profilo quanto a vera «legittimità». Ed ecco, allora, di nuovo le domaride scattare a raffica: è questa la pace? ed è pace con giustizia? e la verità, che cos'è? e che cos'è la legittimità?
Ce le poniamo in quanto cristiani, dobbiamo porcele in nome del realismo, cristiano anch'esso perché la Chiesa non ci insegna che l'uomo è buono e che il regno di Dio «è» di questa terra. Ce le poniamo noi, ed è giusto che se le ponga quello che, da 58 anni a questa parte, come Teatro dello Spirito, vive di questa tensione dilemmatica. Il Dramma Popolare di San Miniato, nato a «provocare» uomini in piedi tra le rovine della seconda guerra mondiale, da sempre ha inteso non di dar risposte edificanti ai problemi che tormentano l'uomo, ma di offrire dei percorsi di ricerca. Ora più, ora meno convincente nelle sue proposte e nella realizzazione teatrale - lo scenario è quello della superba Piazza del Duomo - che ne è stata data, il Dramma ci propone quest'anno un testo fortemente coinvolgente: «Il dilemma del prigioniero» di David Edgar, commediografo inglese formatosi nei gruppi di teatro alternativo degli anni 70.
Un dramma di stretta attualità: dentro, Cristo e/o Machiavelli, per citare un fortunato titolo di Giuseppe Prezzolini. Pace e/o guerra, per parafrasarlo. I protagonisti, amici-antagonisti, li incontriamo nell'89, in un'aula di una università californiana. Partecipano a uri seminario sulla gestione dei conflitti, sono impegnati nella simulazione di un negoziato di pace. Vengono dagli Stati Uniti, dall'Inghilterra, dalla Finlandia, dall'Impero Sovietico prossimo a sbriciolarsi. Hanno la scienza politica nel sangue: sono intelligenti, attrezzati all'analisi, dibattono con appassionato fervore. Ad esempio, su come possa esser risolto «il dilemma del prigioniero». Due uomini vengono arrestati per rapina a mano armata. Li tengono in celle separate. C'è un agente -un partecipante al seminario - che li interroga Che cosa fa? Nei film, in genere, l'agente dice a uno dei due che l'altro ha tradito. E se X tradisce ed Y no? Y se la vede brutta. E X torna in libertà. Mentre se ognuno tradisce l'altro, ottengono al massimo una riduzione della pena. Quindi la scelta è tra tacere e rischiare di ammuffire in carcere, o tradire ottenendo uno sconto di pena o addirittura la scarcerazione. Un momento: tradire è vantaggioso, solo se l'altro non io fa. Devi sceglierti un complice di cui fidarti totalmente. «Il dilemma del prigioniero» - cosa fare? cosa farà il mio complice? - è un esercizio di intelligenza e di intuizione le cui possibili soluzioni, portate su altri scenari tattico-strategia, sono da verificare sul campo. Dunque, in politica e in guerra. I partecipanti al seminario «si divertono» con raffinati giochi intellettuali: ma è un divertimento terribilmente serio. Quando dall'aula di una università sei catapultato nell'impegno di un negoziato reale: quello che cerca di portare a buon fine, con testardo impegno e in mezzo a mille difficoltà, Gina Olsson, pacifista, democratica, progressista, collaboratrice del governo finlandese. Riesce, infatti, a far incontrare in gran segreto, nella propria casa di Helsinki, delegati della Repubblica Caucasica e di un «enclave» islamico - la Drozdania - che reclama l'autodeterminazione. Mentre il terrorismo drozdano fa la guerra alle istituzioni caucasiche, qui ci si accapiglia sulle parole. Sono i valori e le identità
ad essere tirati in ballo? Da quale parte stanno la verità, la morale, l'etica? Possono stare da qualche parte quando sono in gioco gli interessi nazionali, meglio quando gli uni e gli altri si sentono «nazione» e culturalmente ed etnicamente trovano ragioni per rivendicarlo?
Dall'aula di una università, dove si ragiona di polemologia e politologia, eccoci proiettati nella storia «che si fa» o si tenta di fare. Poi, a Ginevra, dove ognuno fa il suo gioco più o meno politico e vuole spuntarla; dove gli Stati Uniti, sinceramente imperialisti e/o sinceramente pacifisti?, dettano le regole; dove, alla fine, le trattative si arenano. Poi, sui campi di battaglia; e lì può capitarti di incontrare un professore che ora è un inflessibile uomo d'armi o un compagno di studi, animato dalle migliori intenzioni parifiche, ma prigioniero della dura realtà della guerra. Scenari che mutano, su un palcoscenico teatrale provvisto di schermi dove spezzoni di storia in bianco e nero si mescolano alle storie dei protagonisti. Realtà nuda e cruda e invenzione: Caucasia e Drozdania non corrispondono a nazioni realmente esistenti, non ci sono «quelle» lingue, eppure ciò che vediamo può essere rappresentato come un «hic et nunc» terribilmente oggettivo.
La soluzione non arriva, strozzata fra utopie e sland idealistici, da una parte, e forza terribile e devastante degli interessi in gioco dall'altra. Ma lo spirito soffia dove vuole e ci plasma come crede: il «Dilemma» di Edgar ci scuote, non ci dà tregua, ci fa pensare. Già per questo motivo, l'antico binomio crisi/crescita fruttifica. E lo spettacolo merita tutti gli applausi che riceve. Ottima la regia di Maurizio Panici e la recitazione, davvero partecipe, attenta e consapevole, di Bruno Armando, Silvia Budri, Andrea Buscemi, Renato Campese, Francesco Gerardi, Silvia Pagnin e tutti gli altri.

MARIO BERNARDI GUARDI, Il Secolo d'Italia, 30 luglio 2004




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