Il Gesù che è in noi
E' di scena, nella quarantaduesima Festa del Teatro nella storica Piazza del Duomo, il «fanciullo» che è in noi, vale a dire la suggestione apocrifa e però rincuorante che sulla terra intervengano dei messaggeri d'amore sotto la specie di creature particolarmente innocenti, sorta di bambini-prodigio i quali, per via di simboli più o meno accostabili alla religione, favoriscono l'indulgenza, la tensione morale, se non addirittura qualche fenomeno sovrannaturale.
Non si pensi, con ciò, che Il vento del cielo, commedia umanitario-psicologica scritta nel '45 dall'autore e attore (e regista) inglese Emlyn Williams da poco scomparso 81 enne, sia una pièce sulla casistica inesplicabile dei taumaturghi che nutrono le speranze popolari. Ambientato nel Galles autobiografico di Williams, con epoca retrocessa al 1856 e cioè ai postumi della guerra in Crimea, il soggetto qui verte sulle voci, sui retroscena, sulle tentate speculazioni e poi sull'esplicarsi misterioso delle facoltà d'un ragazzino di 13 anni. Nel Vento del cielo spirano anche brezze di surrealtà quando ricorre la trance musicale per le onde sprigionate dal ragazzo, e un flemmatico gusto del thrilling s'intravede nell'indagine. Senza che manchi la maniacalità tipica della vena di Williams, in rapporto al macabro e alle perversità della sua stessa inventiva o al suo tendenzioso recitare Shakespeare, o al dedicare, come fece, un copione all'amico John Gielgud il cui corrispettivo è adesso lo scavo di personaggi inquieti.
Non nascondendo la nostra netta preferenza per una chiave laica di lettura del lavoro, pure è necessario rilevare le analogie e gli scoperti segni evangelici che puntellano la storia, e forse ha operato con razionale «senso della salvezza» la regia di Franco Meroni, inserendo quadri che sono di emblematica e naturale pietà cristiana, in modo che il bambino alias Gesù salvatore, e mamma-Madonna nei panni di una domestica ascetica di casa, figurino come in stazioni di passaggio, in un alone di sensitivo magistero. Tutto prende avvio da una perlustrazione circense della zona, e a rompere un'abulia paesana sono il proprietario di un luna park in compagnia del suo strategico braccio destro, alla ricerca di un presunto nano musicante che invece si scoprirà essere il figliolo della tata padronale.
Ma i due affaristi da tendone, la vedova che li riceve e collabora, la nipote (in puro stile Via col vento d'Oltremanica) e almeno un contadino portavoce della comunità sono a vario titolo la reincarnazione di tanti potenziali apostoli, e anzi il boss del circo ha già i presupposti di un San Pietro che cambierà vita e testimonierà i valori, i riscatti contro il «male» che teatralmente è la peste del dopo-Crimea, sedata dai miracoli del bambino che assorbe i travagli e ne muore in un'ultima, sublimante emissione di suoni nell'aria.
Nell'interno gallese permeato a fondo di grigio, con uno scalone di fondo un po' purpureo che rappresenta un varco da deus ex machina, con antri da cui a volte traspaiono gruppi scultorei da Zattera della Medusa (scenografo e costumista è Stefano Pace), Arnoldo Foà impersona un filosofico mercante di freaks, Aldo Reggiani è un Barnum cui una taglia meno corsiva non nuocerebbe, mentre la cameriera-mater di Angela Cardile ha dignità molto efficace, e l'introversa padrona di casa è resa da Nunzia Greco, con la nipote (discreta figlia d'arte) Alessandra Celi, il Messia infante di Mattia Cominotto, e Paola Bacchetti, Luciano Fino. Musiche di Luciano Bettarini.
RODOLFO DI GIAMMARCO, La Repubblica 19 luglio 1988
|