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La recensione di Odoardo Bertani
 

La recensione

L'uomo antico e la sua pena nuova

Dodicesima festa del teatro, sul colle di San Miniato. Alle voci di Ghéon; Eliot, Cicognani, Copeau, Maulnier, Bernanos, Detti, Cesbron, Greene, Fabbri e Claudel si aggiunge quella, non mai udita, di Archibald MacLeish, che degnamente chiude questa prima corona.
Anche quest'anno, come quasi sempre gli è accaduto, l'Istituto del Dramma Popolare (non vi spaventi l'etichetta: son poche persone, ma invidiabili alla città che le ospita, e tali, che il teatro italiano deve loro tra i più alti apporti di questo dopoguerra alla cultura scenica nazionale) ha scelto bene. Ha scelto, cioè, nella unica direzione lecita, per chi consideri il teatro epifania piena dell'uomo, nella sua dimensione profonda, tragica, religiosa, e ripudii, invece, il suo immiserirsi nel chiacchiericcio salottiero, il suo inaridirsi in schemi meccanici, il suo impoverirsi nella cecità dell'azione anziché nell'illuminazione della parola, il suo asservirsi a fini secondi, impropri all'arte come a una reale comprensione del grido dell'uomo.
Perciò ci sembrava, ascoltando J.B. di Archibald MacLeish, sotto una volta pura di stelle e nel cavo della veneranda piazza di Duomo, che il ciclo e i secoli avessero lecita e consona presenza, fossero abitacolo emblematico alle parole dell'oggi: sulla scena agiva l'uomo antico e la sua pena nuova nei giorni. In una precisa sede, poi, dove non molti anni addietro uomini erano stati lupi a stupefatti fratelli. Ciò che accadeva al Giobbe odierno era accaduto perfino a molti dei presenti. Pertanto, l'attualità di talune esemplificazioni del dramma di MacLeish, lungi dall'esaurire in riferimenti di cronaca un effimero interesse era soltanto strumento indicativo di una condizione perenne, straziante sollecitazione a porsi ancora una volta il tremendo problema del dolore. Problema privo di soluzione razionale; conveniamo con il P. Danielou, quando scrive che «tutti i tentativi di darne una spiegazione sono intollerabili». Ora vediamo come ha operato l'autore.
J.B. è il Giobbe della Bibbia; è l'uomo, alla prova del dolore. Il racconto biblico è fedelmente seguito, s'intende in una traduzione, che tiene conto della realtà ambientale e spirituale odierna. Diremo più avanti della tecnica. Ora restiamo fermi alla sostanza della storia, che ci presenta in J.B. un uomo buono, anche se spiritualmente non molto allenato, cui i doni materiali sono stati elargiti in misura piena. Una famiglia numerosa e bella; una posizione sociale ed economica
splendida; una sicurezza costituzionale di operare nel ritmo espansivo della vita e secondo il volere di uno splendido e benefico Iddio. Ma comincia la prova: muoiono i figli, chi in guerra, chi in incidente stradale, chi per mano omicida, chi sotto le macerie, durante un bombardamento, che distruggerà insieme tutti i beni di J.B. Ed egli stesso si ritrova, alla fine, coperto di piaghe, a pregare la morte. Si osservi, tra parentesi, il carattere di queste sciagure: esse sono nell'area della realtà terrena, sono le cose, che per J.B. erano la vita, il mondo, ad essere sbriciolate. Disgrazie atroci, ma nell'ordine materiale, non angoscie di una mente volta a meditare, dubitare e distinguere, non disperazioni dell'anima incatenata a una sua solitudine. Il dolore di J.B. è commisurato alla sua struttura. Ma il male fisico non perciò non pone determinati interrogativi, e tentazioni insomma alla disperazione, alla rivolta, alla negazione, all'annientamento di sé. Nulla di ciò in questo nostro fratello Giobbe. Che dal fondo del suo strazio continua a non voler abbandonare Dio, ad accettare ogni colpo, e a chiedere di conoscere la colpa, che gli è fatta così aspramente scontare. Finché, dopo ch'egli avrà respinto i «consolatori», venuti a parlargli l'uno in nome della storia in cui solo le classi sono degne di considerazione, l'altro in nome dì una concezione puritana dell'uomo come essere totalmente corrotto e l'altro di una psicologia, che annulla la responsabilità della persona, al termine dunque di ogni cammino, Dio parlerà a J.B., per dichiarare la propria potenza e libertà, e la loro irriducibilità alla problematica umana.
Che farà, ora J.B., cui le piaghe si sono per incanto asciugate, pegno di una restaurazione in una nuova vita? Qui viene la tentazione più forte: Satana gli presenta la suggestione del suicidio; non vorrà J.B., dopo tanti orrori, voler continuare a vivere! Non sarebbe meglio usare l'arma, la sola arma a disposizione: uccidersi?
Ma J.B. è un uomo, e la vita si addice all'uomo. Con una coerenza nel personaggio (la sua fiducia iniziale in Dio e nel mondo non era sempliciotto ottimismo, ma profonda salute dell'essere ben radicato, respiro nel respiro del Creato), che è intuizione ineccepibile della natura umana, J.B. non acconsente a rifiutare la vita. Egli è ormai in ascolto di qualcosa, che Sara, la moglie, tornata dopo aver cercato di uccidersi, per disperata impotenza a rispondere alla sete di giustizia patita dalle labbra del marito, gli dirà, con sommessa
parola: «Soffia sulle braci del cuore, e vedremo, a poco a poco... vedremo dove siamo... e sapremo». Soltanto l'amore può dare un senso alla nostra esistenza, farci vivere. Dio valica ogni cosa; imperscrutabile è la sua giustizia; Egli è il Signore di ogni cosa. L'uomo odierno non ha altra possibilità, per comprendere la vita e avvicinarsi a Lui, che l'amore.
Questa bellissima voce finale dell'opera è certamente in sé ineccepibile, oltre che poeticamente valida; ma ci è sembrata un poco inferiore al compito. È stato detto, che Sara «non è ancora figura di una umanità consapevole del messaggio di Cristo: ne è l'annuncio». È sufficiente una tale spiegazione? Ma la Sara che ci parla è storicamente situata in questi decenni, e l'arretramento non sarebbe giustificabile. Se ci è lecito, vorremmo dire, che il magnifico coraggio con cui MacLeish ha pensato, intelaiato e condotto l'opera, qui ha ceduto non so se a un pudore antiretorico o al timore di irritare, con un esplicito atto di fede, che sarebbe stato poi l'ultimo di una serie, i suoi ascoltatori. Quell'accenno struggente all'amore poteva forse avere, a vantaggio della intelligibilità dell'opera, un traguardo più alto e, nello stesso tempo, implicare un reciproco rapporto.
Il messaggio, resta, comunque; MacLeish non ha temporeggiato, non è sceso a compromessi. Ha posto in scena un tema di valore universale, e come personaggio l'uomo (J.B., non è neppure un nome). Intorno al quale, e ai suoi casi quotidiani ma così legati al mistero, stanno Dio e Satana. L'autore ha sapientemetne immaginato che due attori, ridottisi a fare l'inserviente uno e il buffone l'altro in un misero circo, vogliano provare, nell'arena deserta, una loro rappresentazione. L'uno assume la parte di Dio e l'altro, pur nolente, quella di Satana. Poi, le loro parole evocano la storia del Giobbe contemporaneo. Ottima trovata scenica, dicevamo, che poi si nutre di splendida fantasia creatrice, particolarmente nella parte di Satana, anche verbalmente prestigiosa. Al Dio impersonato viene poi, di quando in quando, in aiuto, dall'Empireo, l'Iddio vero, tonante Signore del ciclo e della terra. Troppo grave, per spalle umane, sostenere fino in fondo una tanta parte!
Questi due personaggi restano presenti per tutto l'arco della rappresentazione, in cui intervengono guidando l'azione e commentando le reazioni umane. Degli altri personaggi, hanno rilievo Sara, la moglie di J.B., creatura risentita e quasi presaga, ma in definitiva laterale; non si tratta, infatti, di una vera e propria antagonista di J.B., e non poteva esserlo, data la fedeltà di questo al testo biblico.
Forte il disegno di J.B. Ma c'è da osservare che la misura in cui questi, e gli altri personaggi di contorno, sono tratteggiati, non sfugge ad una certa povertà. Avremmo voluto sentirli, invece, un poco di più. Il fatto è che Giobbe e i suoi debbono, in sostanza, compiere certi gesti e mostrare talune reazioni, il cui suggerimento è immediatamente intelligibile dall'assemblea. La loro è una specie di operazione-ricordo, almeno per i primi due tempi, nei quali invece è affidato ai personaggi di Dio e di Satana, il compito di porre, pur nei loro clowneschi atteggiamenti e nelle loro pirotecniche interpolazieni comiche, il problema del dolore in tutta la sua ampiezza. Finché l'uomo percosso trova dal suo cuore la parola per battere alla porta del ciclo — alla quale si eleva nell'immacolata dignità dell'essere che ha la facoltà unica di stringere un rapporto diretto con Dio —, per scrutare la giustizia divina, per inchinarsi infine al suo Dio onnipotente, e nell'amore individuare la sua inalienabile prospettiva.
Teatro religioso, senza mezzi termini, e dunque, quasi inevitabilmente teatro grande, vissuto coralmente come ha da essere. Il testo originale è in versi; la traduzione di Paola Ojetti ne riverbera gli splendori formali, non però estranei a precisi fini espressivi. Nella bella cornice creata da Gianni Polidori, che ha evitato dispersive suggestioni, per darci la polverosa e grigia realtà di un circo — la vita —, il regista Luigi Squarzina ha creato uno spettacolo animato, forte, pieno. Non ha temuto di lasciare ampio gioco ai clowns, e ne ha anzi sfidato la invadenza, opponendovi la naturale potenza soggiogatrice delle vicende di Giobbe; una ricetta teatrale intelligente ed efficace, perché rispondente alle segrete leggi dello spettacolo, e in fondo della vita, che non è mai monocorde. Squarzina ci ha dato uno spettacolo tutto da vedere e da ascoltare, non tradendo con ciò il testo, un merito del quale risiede forse nella vittoriosa battaglia contro la vantata ricetta della «suspense»: qui tutto è risaputo, fuorché il finale, e tuttavia non per questo l'interesse vien meno.
Degli attori ricorderemo il Parenti per la sua geniale, succosa e nervosa creazione del personaggio di Satana, il Feliciani, «Dio» di felice evidenza; il Sanipoli era Giobbe, personaggio difficile, che egli ha sostenuto con bravura di contenuta espressività; brava Olga Villi, dalle sapienti e limpide modulazioni e davvero esemplari i tre «consolatori»: Giuranna, Bosic e Scacccia. Ottimo il contributo di Zora Piazza, Corrado Pani e Luca Ronconi.
Ascoltato con attenzione reverente, il dramma conobbe un caldissimo successo.

ODOARDO BERTANI, Via Emilia, Bologna, 1 Settembre 1958




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