Una beffa nordica giocata a Mann
Quarantesima Festa del Teatro a San Miniato al Tedesco, tra Firenze e Pisa. Dal 1947, per alcune sere d'estate, la piccola città rossa e turrita dà vita a un teatro cristiano. Quest'anno era la volta di una grande rispolveratura; dai primissimi armi del secolo (fu scritto nel 1905) riaffiorava il testo di Fiorenza, l'unica opera di Thomas Mann destinata alla rappresentazione anche se, in realtà, fu messa in scena soltanto tre volte — nel 1908, nel 1913, nel 1918 — e poi uscì di circolazione.
Sarebbe stata una grande occasione, il nome di Aldo Trionfo, regista, e di alcuni attori (Arnoldo Foa, Virginio Gazzolo) ci autorizzavano ad aspettare un Thomas Mann riproposto nella sua antica, intatta modernità. E invece la rispolveratura si è trasformata in uno stravolgimento del testo originale, la lenta, poco «teatrale», ma chiarissima disputa sulle ragioni dello spirito e su quelle dell'arte è apparsa trasfigurata.
Basta confrontare il testo originale di «Fiorenza» con il rifacimento opera Aldo Trionfo e Marco Bongioanni. Nel testo di Mann le cose sono trasparenti come doveva apparire trasparente il tempo del grande Umanesimo a uno scrittore del Nord che ne aveva patito e ne pativa la nostalgia. Tutto all'inizio, si svolge nella villa di Careggi dove Lorenzo è da qualche tempo ammalato (è l'8 aprile 1492, il suo ultimo giorno), nell'aria c'è il tanfo materiale e metaforico della morte, i letterati, i filosofi, gli artisti, i figli, l'amante Fiore che gli ruotano intorno, vivono in un'aria di agonia: ma, come Lorenzo, si illudono che il male passerà, che la vita ritornerà. Una straordinaria opera d'arte, è facile pensare che Firenze lasciata in balia di se stessa, dilaniata internamente dalle tremende prediche del Savonarola, sarà ancora dei Medici.
C'è, anche, in questa prima parte la presenza del frate domenicano: ma è lontana, nella valle, dentro il chiuso di Santa Maria del Fiore e del convento di San Marco. Qualcuno cita le sue parole: ma sono parole di un fantasma, con le sue remote debolezze di uomo, le sue antiche passioni deluse, la sua carnalità offesa è diventata ascetismo lugubre, tremenda violenza contro tutto ciò che è terreno. Il fantasma diventa reale quando Lorenzo — nella parte finale — chiede di misurarsi con lui, vuole incontrare quella specie di idea platonica del prete che il Savonarola gli sembra essere.
Tra i due, finalmente presenti sulla scena, il dialogo si fa concitato e si conclude, drammaticamente, senza una vera conclusione. Perché Lorenzo, morendo, vede crollare il suo sogno di politico-esteta: e Savonarola, vivendo, si sente colpito dall'invito-maledizione che Fiore gli grida («Ritirati! Cessa di volere, invece di volere il nulla!») e capisce che la purificazione del fuoco che ha invocato per Firenze sarà anche la sua salvifica purificazione.
Nel rifacimento di Trionfo e Bongioanni le cose si confondono subito: la reggia di Careggi è come invasa dalla presenza del Savonarola che urla le sue invettive, alternativamente, dai due pulpiti situati ai lati della scena dove accadono gli incontri fra Lorenzo e i suoi fedeli: la distinzione fra il mondo dell'agonia ma anche della speranza e il mondo della profezia catastrofica non esiste più. E Thomas Mann resta autore al dieci per cento: perché sempre il discorrere del frate non gli appartiene. E' desunto dalle prediche autentiche, picchia su argomenti che nel dramma tedesco non esistono. Si resta con l'impressione che i due rifacitori abbiano fatto a Mann uno scherzo nordico: nel senso che là dove era la luce dell'ultimo Umanesimo, nella limpida atmosfera che Mann aveva nostalgicamente recuperato, insinuano dappertutto le ombre nere del Cristianesimo severo, quasi tremendamente luterano. Successo di pubblico calorosissimo. Si replica fino al 17.
LUIGI TESTAFERRATA, Il Giornale 12 luglio 1986
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