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La recensione di Roberto De Monticelli
 

Sul sentiero del teatro parole come fumo
Ci hanno dato, ieri, qui a San Miniato, il bel volume che l'Istituto del dramma popolare ha dedicato al 25° anniversario della Festa del teatro, la manifestazione che tutte le estati accende su questo colle le luci di un palcoscenico, quasi sempre sul prato della piazza del Duomo, che è un luogo piuttosto magico, ma anche in qualche antica chiesa; e un anno, mi ricordo, quel punto più alto del poggio, a sfondo della scena non c'era che il cielo.
Non per cedere una volta di più al vizio — perché è un vizio — della nostalgia, ma a sfogliare quel volume, messo insieme da Giuncarlo Ruggini, sacerdote dinamico e disponibile a tutte le battaglie d'una cultura cattolica moderna e arrischiata, si ha il consuntivo di un'attività teatrale ohe non si può certo definire estiva, nel senso un po' degradante che si da ormai a questo aggettivo quando si applica allo spettacolo. A San Miniato si è fatto sempre del teatro impegnato nella direzione di uno. spiritualismo aperto, inquieto, che chiedeva confronto e dialettica. Testi di grandi scrittori, da Bliot a Claudel a Bernanos; ricerche perplesse e sincere della spiritualità contemporanea (Betti, Christopher Fry, Neveux, Maulnier), indagini sulla condizione sacerdotale come milizia nel quotidiano (Fabbri), la Chiesa medievale, con le sue contraddizioni mondane e le sue accensioni mistiche, come metafora d'una società che può essere quella di oggi (Silone).
Si sono elencati solo alcuni nomi e alcuni momenti ma, nelle inevitabili disuguaglianze di venticinque anni di attività, è giusto riconoscere una coerenza e un livello, in una zona della creatività letterario-drammaturgica dove il reperimento dei testi non è facile, specialmente se a un certo punto, come naturale, si voglia andare sul nuovo. L'attributo d'estivo prende dunque qui, come si diceva sopra, patina di nostalgia, perché è più facile rimpiangere le estati che gli inverni del passato; e, qui, sul colle di Federico, vivemmo anche qualche buon momento di teatro; e di spettacolo; leggemmo cioè, fra gli alberi dell'estate e le pietre del medioevo, alcune buone pagine di regia.
Perché dunque, proprio nel venticinquesimo anniversario della manifestazione, andare a scivolare sulla buccia di banana di questa L'erba della stella dell'alba, di Amleto Micozzi e Marcello Aste, «Visione Sioux e rappresentazione», come sta scritto, nel copione, sotto il titolo? Purtroppo, di quest'erba, di questa stella e quest'alba, poetici simboli del mondo cultural-religioso degli indiani d'America, quelli che batterono il generale Custer in una battaglia entrata nella leggenda ma che poi furono chiusi nelle Riserve e diventarono spettacolo per turisti, non ci importa molto. Non perché non ci interessino quel mondo e quei problemi (documentati in un libro affascinante, ci dicono «Alce Nero parla», di John G. Neihardt, dal quale gli autori hanno evidentemente attinto; ma non lo dichiarano); ma perché, nei modi e con il linguaggio drammaturgico tramite i quali si pretende di comunicarci qui il dramma di un popolo, quei problemi, quelle vicende, ci restano lontani, oscuri. E insomma, a dirla schiettamente, non si capisce molto, dal contesto dello spettacolo; o, se vogliamo, si capisce fin troppo. Ma quel troppo, essendo ovvio, è poco, così poco che non valeva la pena di montarci su una macchina come questa e d'impegnarci il nome di un teatro stabile importante come quello di Genova, uno dei condirettori, Luigi Squarzina, proprio qui a San Miniato realizzò anni fa uno spettacolo suggestivo come quello che, per la prima volta presentò in Italia Il grande statista di Eliot.
Ad ogni modo, che volete vi dica? Davanti agli scacchi il critico partecipe e mediocremente provvisto di cinismo è imbarazzato. Quello brillante ed evasivo vi parlerà forse del verso del cuculo — o del chiù come dicono qui, con parola infinitamente più espressiva — che ha accompagnato tutta la rappresentazione e qualcuno, in buona fede, stava per prenderlo per un additivo registico; e invece il notturno uccello se ne starà da sempre annidato in qualche cavità della estate sanminiatese, l'estate delle famose cicale del Carducci. E luci e suoni dello spettacolo di Marcello Aste (e magari sopratutto le musiche di Piero Piccioni, che a noi ricordavano un po' Hair; e ai colleghi che frequentano il cinema alcune colonne sonore, ma assai... sui pellirosse) lo avranno soltanto disturbato.
E' un testo confuso, la cui coralità resta espediente esteriore, vorremmo dire tecnico e non diventa mai sostanza poetica che investa la storia di un popolo e l'amara espressività degli individui. C'è la «visione» del personaggio protagonista, Alce Nero, apoteosi pessimista comunicata con
un linguaggio che, nel suo esotismo di maniera, vorrebbe in qualche modo corrispondere a una certa angoscia biblica; e apocalittica. Nel pessimismo di fondo c'è l'apertura di una stretta ipotesi: se nascerà l'erba della comprensione... ma veramente, se questa erba dovrà essere annaffiata dal patetismo ideologico della scena che precede e nella quale si vede Alce Nero a colloquio con un operaio, figlio d'un combattente della Comune di Parigi e con un pittore vagamente hippy e protestatario, meglio che muoia ancora verde.
Lo spettacolo assumerebbe un suo significato illustrativo-didascalico nelle scene che descrivono le «tournee» di Buffalo Bill, impresario del folclore pellerossa, in Europa e l'incontro con la regina Vittoria definita la Grande Nonna; ma bisognerebbe che questi momenti fossero approfonditi dialetticamente e non cedessero così presto al ritornante lirismo, che è l'onda su cui lo spettacolo oscilla, girandola di figurazioni mimiche immerse in un indifferenziato plasma musicale.
Non sapremmo chi citare degli attori, che pure si impegnano tutti coscienziosamente; forse Giulio Brogi, che è l'onirico e assai verboso Alce Nero e Grazia Maria Spina che è la sua sposa Luna Verde e l'Anna Micheletti, emblema caricaturale della regina Vittoria e Ugo Maria Morosi, che è Buffalo Bill. Il contenitore scenografico di questo girotondo e le suggestive maschere sono state approntate da Gianfranco Padovani. E dobbiamo aggiungere, per obbiettività, che la prima versione del testo (che abbiamo avuto occasione di leggere) era meglio e soprattutto più chiara della sintesi drammaturgica adottata poi per lo spettacolo.
Roberto De Monticelli, Il Giorno, Milano, 28 Luglio 1971




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