Un «Cristo» non più proibito
Secondo un vecchio luogo comune da un cattivo romanzo si può spesso trarre un buon film; e da un cattivo film si può trarre un accettabile spettacolo teatrale? Sulla base di quanto accaduto a San Miniato nell'ambito della 48a Festa del Teatro, si può rispondere di sì. Cristo proibito scritto e diretto da Curzio Malaparte era, o certamente apparve all'epoca sua, un film mancato, malgrado retrospettivamente gli si possa dare atto del tentativo di andare oltre la forza documentaria del neorealismo. Il guaio è che le soluzioni proposte, in particolare la ricerca di una plasticità di immagini (le crete di Volterra, solenni e drammatiche) reminiscenti della grande pittura toscana, andarono rovinosamente verso una retorica priva di qualsivoglia ironia non dissimile da quella che proprio il neorealismo aveva combattuto e gloriosamente sconfitto.
D'altro canto l'apologo dallo stesso Malaparte indebolito con compiacimenti calligrafici e con la scelta di un cast assai improbabile conteneva un tema non banale, quello del compromesso al quale si deve pur scendere quando è tempo di metter fine a un conflitto. Bruno torna .dopo anni di prigionia in Russia, e apprende la morte di suo fratello, fucilato dai tedeschi con molti altri giovani. Tutto il paese sa chi lo aveva denunciato, ma giunta la pace, ha deciso di non compiere ulteriori rappresaglie e tace con Bruno, che però insiste a volersi fare giustizia. Uno dopo l'altro egli interroga vari testimoni, a partire dai propri vecchi genitori. Tutti gli rispondono allo stesso mòdo: non abbiamo perdonato e non perdoneremo mai, ma abbiamo deciso di dimenticare; perché la vita vada avanti bisogna che qualcuno dica basta, non si uccide più. Tormentato dal suo rovello, Bruno insiste col saggio del luogo, un falegname che il popolo chiama padre Antonio; finisce che questi provocatoriamente si autoaccusa del misfatto, facendosi uccidere da Bruno, il quale capisce subito l'errore commesso. Ma ormai la vittima sacrificale c'è stata, il delitto è stato espiato, la pace sarà possibile.
Come forse sarà emerso dal breve riassunto, c'è molto Malaparte in questa storia, che unisce un elemento appassionante e di non tramontata attualità (la distinzione fra vendetta e superiore esigenza di bene comune) con uno mistico-decadente, assai meno limpido (la necessità dell'agnello sacrificale, oltretutto sottolineata con un tuffo nell'etnologia pittoresca, l'annuale processione-mascherata evangelica del paese). Con coerenza e discrezione Ugo Chiti e il regista Massimo Luconi hanno smussato nella loro riduzione la parte enfatica e più facilmente spettacolare della pellicola, puntando su di un sobrio aneddoto di storia locale rivissuto in chiave popolare che può far pensare a operazioni di drammaturgia collettiva come quella annuale di Montichiello. Spoglia la scena di Stefania Battaglia, severi parallelepipedi che girandosi delimitano aie e altri spazi di vita contadina; sobri i costumi di Giovanna Buzzi, che castamente rifiutano pretesti troppo gustosi - della processione vediamo i preparativi, e il dopo, quando i paramenti vengono riposti; composta, infine, la recitazione dell'affiatato gruppo dell'Arca Azzurra, che fa sentire ma non sottolinea l'accento regionale, e nel quale si distinguono i noti e affidabili Marco Natalucci, Dimitri Prosali, Patrizia Corti e Lucia Socci. Assai bene integrati nell'ensemble, per l'occasione, benché un pochino scontati entrambi, Claudio Bigagli che offre a Bruno la sua maschera dolente e Massimo De Francovich con la barba bianca e la voce pacata del falegname filosofo (minori le occasioni per Lucilia Morlacchi come la madre del reduce); tutti giustamente applauditi, in ogni caso. Due tempi (45' e 40'), repliche fino al 20 luglio.
Masolino d'Amico, La Stampa 16 luglio 1994
|