La recensione
La malattia del giorno per la Giovanna di Maulnier
II riproporre oggi, su un palcoscenico, le tremende alternative della pulzella di Domrémy impone il senso di una necessità. Sarà per Shaw la necessità di riplasmare per Giovanna una realtà politica, sottilmente percorsa da dispositivi mentali; sarà per Claudel l'aspirazione a svampare di nuovo la figura della santa soldato, e la sua vicenda mistica e patriottica, in un territorio di sublimi allusioni, non meno tormentose, anzi spesso impersuasive; sarà infine per Brecht il bisogno di restituire all'affresco una salute terrestre, con i suoi lineamenti di lotta, che inducono l'ultima Giovanna, vestita ormai da predicatrice dell'« Esercito della Salvezza », a schierarsi con gli operai sul lastrico, licenziati dai Grandi Macelli di Chicago. E non parliamo di qualche Giovanna minore, anch'essa alla ricerca se non altro di una verità illustrativa, come quella di Maxwell Anderson.
La Santa Giovanna di Thierry Maulnier, "Jeanne et ses juges", pubblicata meno di un anno fa in "France Illustration" e già rappresentata due volte in Francia, la prima — nel maggio del '49 — sul sagrato della Cattedrale di Rouen, la seconda — nel maggio del '50 — su quelle tavole di esperimento e di analisi che restano le assi del parigino « Vieux Colombier » ha anch'essa una sua necessità da esprimere e da liberare. È una fatalità. La Pulzella di Maulnier, condotta, dopo Genesio, dopo Thomas Becket, infine dopo Francesco, sulla balza di San Miniato, a celebrare anch'essa il teatro fra le rosse pietre del Duomo e la torretta massiccia del palazzo vescovile, ha inteso, più di quanto non sembri, il segno del tempo, e s'è lasciata filtrare e lacerare da una ventata che ha costituito ormai per troppi anni, e non soltanto sui palcoscenici francesi, fino a esaurirsi, il più patetico urlo del dopoguerra. "Giovanna e i suoi giudici" è la Giovanna dell'angoscia: zone di smarrimento esistenziale si insinuano in mezzo alle sue parole e al suo giro di pensiero con la scaltrezza di un'insidia; nelle tredici scene che compongono le due parti del lavoro, ora sorda, ora lucida, ora pronunciata in una sorta di cadenze maniache, dilaga la malattia della disperazione.
Thierry Maulnier, poco più che quarantenne, saggista, articolista, critico, autore di una Antologia della poesia francese e, per il teatro, de "La course des rois", ne affronta tutto il rischio. Sembra non temere l'irretirsi della sua Giovanna in speculazione senza via d'uscita, dove al contrario sarebbe occorso, ancora una volta, sia pure dichiarato con diversa voce, un umano confronto fra la santa eroina e la donna. Dovendo infine istituire il colloquio, non può così sottrarsi all'urgenza di vivisezionare la sua creatura, e allora fa apparire, davanti alla Pulzella disarmata e prigioniera, « preda della stanchezza, del sonno, della paura », un'altra Giovanna in armatura da guerra, splendente e fiera, che « sceglie » la sagra del fuoco. Ma, se questa può essere la novità del testo, così facendo Maulnier determina una rottura, un intervallo, proprio laddove il personaggio doveva essere più compatto e più intero e, più compatto e più intero, iniziare secum ipse l'estremo dialogo, II conflitto tra la prigioniera e la Chiesa mostra bensì chiaramente, fino dall'inizio, fino dal lungo interrogatorio fatto dai tre Giudici, da quale parte sarà la vera sconfitta; tuttavia il motore interno di tutto il dramma, quello che ha preoccupato Maulnier, è sempre quell'invito alla disperazione col quale una delle voci celesti si rivolge a Giovanna (« Dispera, dispera, dispera... »). Un motivo, quindi, di disfatta e di rovina, di sfiducia e di dubbio (« Dio non ama chi non ha mai dubitato »), sul cui ricorso cupi accordi nascono lungo tutto il tessuto del lavoro. « Che chiami e che nessuno le risponda »: da qui la prova di Giovanna ha inizio, con Dio spettatore, fino all'abiura, fino al riscatto e al martirio.
Questo verrà quando le due nature in una dovranno « riassomigliarsi », e l'Arcangelo a quella potrà andare incontro, con le sante Caterina e Margherita e con la povera folla dei fedeli.
Però una grande eco resta assente dal dramma di Maulnier: l'umanità. E ne resta assente, soprattutto, proprio per questo scheletro arido e immobile, da rituale esistenzialista, che non corrisponde, infine, al sangue cristiano di Giovanna d'Arco. La cronaca delle angustie, e quella stessa del segreto mondo visionario e dell'eroica ostinatezza, non possono sostituirsi a ben altra forza che penetra la vita e la protesta e la ribellione della Pulzella, nella sua natura popolana (« II popolo — dice ai Giudici — non la pensa come voi »). Anche senza richiamarci alla disinvoltura disincantata della Pulcella volterriana, dobbiamo di nuovo fare riferimento all'esigenza d'un racconto non formalizzato, non scialbato, che finalmente sveli la giovane contadina di Orléans in tutto il suo universo di luminosi nascondigli.
Il dramma, tuttavia, è apprezzabile per una sua scarna compostezza, per una lingua svelta e nuda, per una severa architettura che si ispira ai classici. Statica nella prima parte, la sequenza dei dialoghi si anima nella seconda, specialmente con l'episodio del Soldato tentatore. Però il rigore dialettico della prima parte, resta decisamente superiore a quello della seconda, che si frammenta e si disperde, come per stanchezza.
La piazza del Duomo di San Miniato, dove s'è celebrata la festa annuale del teatro in onore di Genesio, mimo e martire, protettore della cittadina e protettore dei comici, ha offerto a Guido Salvini la possibilità di una regia discreta, fedele al testo. Sono bastati, anche questa volta, pochissimi elementi scenici, e di semplice costruzione, per suggerire i luoghi della rappresentazione sulla ghiaietta della piazza, fra le scale del palazzo e quelle della chiesa, col rintocco delle campane e il contrappunto dei cori liturgici.
Una citazione particolare merita la topografia delle « apparizioni ». L'Arcangelo Michele e le due sante Caterina e Margherita, sono apparsi in aloni di luce disposti sul tetto della chiesa, o entro il cerchio dei rosoni della facciata, o sulla cima della torre posta alle spalle del pubblico. La dislocazione delle « apparizioni » seppur audace, non ha contribuito all'unità dello spettacolo e ha distratta un po' l'attenzione, tanto più che le parole pronunciate dalle tre voci contengono passaggi che sono poi quelli fondamentali del testo.
Degli attori, Vivi Gioi — come Giovanna — ci è parsa la più vicina al suo personaggio. All'angoscia della santa e della combattente ha dato un impasto nervoso di accenti, di attacchi, di silenzi, che via via si univano all'inquietudine della maschera.
Per quanto attrice decisamente « moderna » e nonostante certe sillabazioni irragionevolmente infantili, Vivi Gioi ha superato come Giovanna la prova data di recente come Anna Bolena. Salvo Randone, uno dei nostri attori più intelligenti e più trasparenti, ha invece conferito spesso al Soldato mezze voci e mugolati che non ci sono parsi fra le sue creazioni migliori. Carlo D'Angelo è stato il più convincente dei tre Giudici, raggiungendo talvolta ottimi risultati; mentre certe disuguaglianze abbiamo riscontrate negli altri due Giudici: Vittorio Sanipoli e Giancarlo Sbragia. Edda Albertini — l'Altra Giovanna — non si è saputa del tutto liberare, nemmeno qui, di una dizione perfettamente controllata, ma compiaciuta. Fra gli altri interpreti, ricordiamo Stella Aliquò (Santa Caterina), Anna Miserocchi (Santa Margherita), Gabriele Ferzetti (l'Arcangelo Michele). La piccola massa era invece composta di visibili uomini di oggi vestiti in costume: i costumi non diventavano abiti, e la piccola massa, priva di una configurazione realistica da un lato, e dall'altro priva anche di una impostazione ieratica, che forse era quella desiderata, si smarriva sulla ghiaia della piazza, senza diventare teatro. Ben definiti i costumi di Vagnetti.
Il pubblico, numeroso, ha applaudito vivamente sia al termine delle due parti che durante lo spettacolo. Era presente Thierry Maulnier, che alla fine è stato salutato da ripetuti applausi.
SERGIO SURCHI Il Dramma, Torino, 1 Settembre 1951
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