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Il Corriere della Sera - La recensione di Magda Poli
 

L'amara, inutile vendetta di Bruno
Nato come romanzo Cristo Proibito divenne nel '51 il primo, e unico, film di Curzio Malaparte che ne fu soggettista, sceneggiatore, regista e autore delle musiche. Il film fu un autentico disastro di pubblico e la critica gli riservò copiose stroncature e poche lodi, giudicandola banale dal punto di vista tecnico-espressivo, carico di letterarietà, pretestuosità e «zeppo di messaggi non chiari». Portato sul palcoscenico a San Miniato nell'adattamento di Ugo Chiti e Massimo Luconi, che firma anche la regia dello spettacolo, la didascalicità, la macchinosità, la fragilità del testo vivono con rinnovato vigore. In Cristo Proibito Malaparte racconta la storia di un reduce della Seconda guerra mondiale, Bruno, che dopo la prigionia in Russia torna al suo paese in Toscana con la ferma convinzione di uccidere il traditore del fratello, partigiano assassinato dai tedeschi. Il desiderio di vendetta lo ha tenuto in vita durante la prigionia e ora è deciso a farsi giustizia. Ma la gente, stanca di sangue e sofferente, per un tacito senso d'omertà, non vuole dirgli chi è il colpevole. Padre Antonio, il «santone» del paese, un frate laico dal passato misterioso, si fa uccidere da Bruno, facendogli credere di essere il traditore. Così il giovane si ravvede e imbocca la strada del perdono. Quando scoprirà il vero delatore non lo ucciderà perché qualcuno ha pagato per tutti.
Malgrado gli sforzi della Compagnia dell'Arca Azzurra, integrata dalla preziosa presenza di Lucilla Morlacchi (la madre di Bruno), Massimo De Francovich (Padre Antonio) e Claudio Bigagli (Bruno), la pochezza del testo, il contrasto tra le tesi etico-religiose che si vogliono dimostrare e la forma scelta per dimostrarle, un intreccio da feuilleton tutto amore, morte, tradimenti e vendetta, rendono problematica un'unità stilistica nella narrazione scenica.
Massimo Luconi non è riuscito a dare una forma al pretestuoso impasto tra simbolo e realismo quotidiano. Il dualismo è ancora più accentuato dalla differenza delle concezioni interpretative espresse dagli attori, da un lato la Morlacchi e De Fràncovich che si calano nella parola, la rendono carica di echi, dall'altro la recitazione naturalistica, minimalista degli attori dell'Arca che si esprimono con un impasto linguistico toscano. In mezzo c'è Claudio Bigagli che pencola ora su un versante, ora sull'altro. Il risultato è uno spettacolo ben confezionato ma confuso come il testo su cui poggia, e il cui senso non va al di là di uno spirito generico di riconciliazione e di un'ancor più generica condanna della guerra.
MAGDA POLI, Il Corriere della Sera 17 luglio 1994




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