Il dilemma del prigioniero di David Edgar
a cura di Sara Soncini, traduttrice del copione
Il dilemma del prigioniero (The Prisoner’s Dilemma), allestito dalla Royal Shakespeare Company per la regia di Michael Attenborough, debutta nel luglio del 2001 al The Other Place di Stratford per poi trasferirsi, nel gennaio dell’anno successivo, sul palcoscenico londinese del Barbican.
1989, un’aula dell’Università della California. I partecipanti a un seminario sulla gestione dei conflitti sono impegnati nella simulazione di un negoziato di pace. Chiaramente affascinato dal parallelismo tra setting diplomatico e set teatrale, Edgar illustra alcuni dei giochi di ruolo di cui la diplomazia fa largo uso – tra questi, il noto “dilemma del prigioniero” che dà il titolo alla pièce. La scena successiva ci catapulta in una situazione reale: lo scontro tra la Caucasia, una ex repubblica sovietica, e la Drozdania, un’enclave a maggioranza islamica che reclama a sua volta l’indipendenza. La fiction consente a Edgar di fare riferimento a numerosi scenari di guerra contemporanei, dalla Palestina alla Cecenia, dalla Bosnia all’Irlanda del Nord, dal Kosovo all’Afghanistan, mostrando come la logica semplice e asettica dei modelli teorici si scontri con la complessità delle cause dei conflitti e con la difficoltà di costruire un linguaggio comune della pace. Grazie alla mediazione di Gina Olsson, che ora lavora per il governo finlandese, alcuni delegati caucasici e drozdani accettano di partecipare a un colloquio informale e segreto nel paese scandinavo. I dialoghi di Edgar scandagliano con grande efficacia il sottotesto degli interessi reali che si cela sotto il linguaggio formalizzato della diplomazia e della politica internazionale, il divario tra ciò che una parte dice e quello che l’altra “sente”, i differenti significati che una parola assume a secondo di chi se ne appropria. Le stesse voragini dell’inespresso si aprono al di sotto dei rapporti personali, in particolare quello tra la mediatrice Gina e Kelima, la terrorista drozdana che vuole la pace. Il pubblico assiste col fiato sospeso al clima teso dei negoziati, agli sforzi per costruire un terreno d’intesa e al loro vanificarsi davanti agli squilibri di potere, agli interessi economici – in primis quelli degli stessi mediatori – e ai fantasmi della Storia. Esemplare la scena in Finlandia, dove l’accordo che potrà scongiurare lo scoppio di una sanguinosa guerra civile dipende letteralmente dalla sfumatura di una parola, “rinunciare” alla violenza – un verbo che, dopo un’estenuante trattativa, verrà sostituito con un sinonimo che non implichi una condanna dell’unica strategia politica a disposizione dei ribelli. Si tratta però di una soluzione che rimane subito impigliata nella complessa rete di interessi interni ed esterni: l’accordo non viene ratificato, si giunge allo scontro aperto, si commettono crimini di guerra che rendono ancora più difficile ricostruire uno scenario di pace, specie se i colpevoli restano impuniti. Quando, nel secondo atto, i due contendenti ritornano al tavolo negoziale, questa volta lo fanno su una portaerei americana e sotto la regia dello zio Sam. Qui, il progetto di uno stato democratico multietnico naufraga davanti alla più facile soluzione della secessione e della pulizia etnica.
Mettendo in discussione il ruolo dell’Occidente, in bilico tra il genuino desiderio di promuovere la pace ed il sostegno dei propri interessi politici ed economici, The Prisoner’s Dilemma è un testo quanto mai attuale e “necessario” nella situazione internazionale attuale. Come dimostrano i consensi entusiastici ottenuti dallo spettacolo, specie nella ripresa londinese dopo gli avvenimenti dell’11 settembre, il pubblico è oggi pronto a prestare ascolto alla complessità del lavoro di Edgar, ad interrogarsi su questi pressanti dilemmi che sono ormai entrati di prepotenza a far parte della nostra vita.
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