La recensione
La Bibbia in rococò
Per la diciassettesima Festa del Teatro a San Miniato l'Istituto del Dramma Popolare ha incaricato Orazio Costa di mettere in scena una delle prime opere di Christopher Fry, anzi la prima che egli si decise a pubblicare nel 1946: "The firstborn" ("II primogenito"). Vi sono narrati in versi (in prosa nella traduzione italiana di Cesare Vico Lodovici) i casi di Mosè e dell'esodo dall'Egitto del popolo di Israele che egli guiderà alla Terra Promessa.
Fry è autore quasi nuovo alle nostre scene. Io stesso non ho visto di lui, in Italia, che "Una fenice troppo frequente", specie di «sotie» o raccontino filosofico o pasticcio o rifacimento da rifacimenti di Petronio, di La Fontaine e di Voltaire. Eravamo pochi spettatori, meno di trenta sicuramente, si era alla fine di luglio e faceva un caldo da Arabia Saudita nel teatrino romano dove si rappresentava la storia della bella dama di Roma antica che vuole seguire agl'inferi il marito morto e si lascia andare accanto al sepolcro decisa a non toccare cibo finché essa stessa non avrà raggiunto il caro estinto, e poi invece piano piano si fa consolare e ricondurre alla gioia di stare al mondo da un giovane e bel soldato. Eppure quei pochi, in tutto quel caldo, trovammo la forza di divertirci e di ridere, perché il raccontino era davvero divertente e l'autore l'aveva narrato con lo spirito e la malizia di un vero poeta comico della buona tradizione.
Faceva invece un bel freschetto a San Miniato l'altra sera nel punto più alto e ventilato dove era stata ricavata la platea e allestita la scena proprio sulla cresta del poggio, sì da accrescere il senso di isolamento e di potenza della reggia faraonica, quando l'azione si svolgeva alla corte, ovvero, quando si svolgeva nella tenda di Miriam sorella di Mosè, il senso di immensità e profondità dei cicli pieni della voce di Dio e dei lamenti del suo popolo. E se è vero, come vuole qualcuno, che la poesia di Fry è una poesia antelucana, cioè di quell'ora, nel corso del giorno e nella vita dell'anima, in cui i confini tra l'ombra e la luce, tra il bene e il male, tra il giusto e l'ingiusto sono assai incerti, non c'è dubbio che il regista Costa, lo scenografo Giovanni Miglieli e il musicista Roman Vlad hanno fatto quanto era in loro potere, e in potere del teatro, per rendere l'incertezza e l'amiguità di quell'ora in cui, come dicono gli arabi, non è facile distinguere un filo bianco da uno nero.
Specialmente nei quadri finali, quando sta per scoccare l'attimo del destino di Israele, e il popolo è già in piedi, e Dio sta per mandare sull'Egitto l'ultimo più grave flagello, la morte di tutti i primogeniti, da quelli delle mandrie del bestiame all'erede al trono, affinchè il Faraone finalmente capisca l'antifona e si decida a lasciare andare gli ebrei alla loro sorte e alla loro missione, e nella notte piena di gridi e di presagi Mosè sente improvvisamente dolergli la parte di sé, o almeno dei suoi ricordi, che è rimasta egiziana e corre a perdifiato alla reggia per cercare di sottrarre il primogenito del Faraone all'ira imminente di Jehova, proprio in quelle scene il teatro ha compiuto tutto il suo dovere verso la poesia.
«Esiste un angolo sperimentale dove l'ombra è distillata in luce... è allora che il nostro destino tragico trova la sua china naturale e va diritto allo scopo che la Creazione gli ha assegnato. Il teatro collabora a questa esperienza e la compie». Se quell'angolo tra ombra e luce fosse esistito nell'immaginazione di un grande poeta e non soltanto nelle belle frasi e nel gergo poetico di un letterato di talento, l'altra sera il teatro ce ne avrebbe sicuramente dato la rivelazione perché, ripeto, esso non poteva fare di più per la parte che lo riguardava.
Ma è che quella di Fry, lungi dall'essere grande poesia non è neppure, nel "Primogenito", un tentativo felice di spiegare con proverbi preziosi e immagini decadenti uno dei momenti decisivi di un grande popolo e uno dei grandi libri poetici della Bibbia. Applicate e aggiunte all'ampia, nuda, ineluttabile poesia dell' Esodo, le frange ingegnose e dilettevoli di Fry, tutte lavorate su ricordi del suo Giraudoux, del suo Eliot, del suo Shakespeare, danno un suono stridente malgrado la soavità e dolcezza delle immagini. Il fatto è che i poeti, ed essi soprattutto, hanno il dovere di conoscersi la loro più autentica natura e i loro limiti. Quella sera, nel teatrino affocato, in un'edizione improvvisata e di fortuna, noi trovammo la forza di ridere e divertirci al caso dell'infedele matrona romana malgrado che Fry l'avesse rifatto su una storiellina di Petronio rifatta da La Fontaine rifatta da Voltaire. Perché la sua natura è di letterato, cioè in certo senso di rifacitore, e di piccolo ma autentico poeta comico. E invece l'altra sera, malgrado il fresco, malgrado la suggestione delle immense prospettive, delle belle e varie luci e della bella musica, il suo Mosè e il suo Faraone che parlavano l'uno di mistero e di libertà, l'altro di civiltà e necessità, ci lasciavano piuttosto freddi perché non era difficile avvertire quanto ci fosse di volontario o di velleitario nella sua pretesa di rifare l'Esodo con un repertorio di immagini rococò.
In ogni modo lo spettacolo puro e semplice fa onore a chi l'ha voluto e ideato, è ricco d'invenzioni e, come si è detto, di una sua misteriosa dimensione, ed è ben recitato almeno dalla parte degli ebrei: il forte, invasato Mosè fatto da Luigi Vannucchi, il fedele Aronne di Quinto M. Foschi, la dolce, disperata Miriam di Anna Miserocchi, l'inquieto Sbendi di Paolo Giuranna e il coro degli ebrei lamentatoci assai ben diretto e addestrato. Invece dalla parte degli egiziani si aveva l'impressione o di un insufficiente rodaggio (Evi Maltagliati, la sorella del Faraone e Fosco Giachetti, il Faraone) o di manierismi eccessivi (Nicoletta Languasco, la figlia del Faraone e Roberto Heritzka l'erede al trono).
SANDRO DE FEO L'Espresso, Roma, 11 Agosto 1963
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