Uno spettacolo sovraccarico di simboli
«Il Cavaliere, la Morte, il Diavolo»: è stata l'incisione di Albrecht Durer ad ispirare il giovane drammaturgo Roberto Cavosi. Da lì è nato il Cavaliere di ventura, racconto poetico dei destini umani di Ofelia e di Fortebraccio. Un omaggio a Shakespeare, anche. «Da piccolo — confessa l'autore — rompevo le bambole di mia sorella per farne il teschio di Amleto». E il Principe del Dubbio ritorna nel Cavaliere di Cavosi come causa dell'amore e della pazzia di Ofelia, ma anche come strumento della ricerca interiore di Fortebraccio.
Ripudiata da Amleto, Ofelia si toglie la vita abbandonando le sue spoglie mortali nell'acqua di un lago. Il suo spirito però non trova pace e il suo amore per il Principe del Dubbio non si estingue nemmeno dopo la morte. Fortebraccio è un uomo alla ricerca di se stesso, del senso della vita. Senso che egli cerca non attraverso le sue imprese, le sue battaglie, la sua carriera «professionale», ma attraverso il Dubbio. Fortebraccio e Ofelia congiungono i loro destini in un cimitero ai piedi del castello di Amleto.
Come nell'incisione di Durer, il Cavaliere viene affiancato dalla Morte e dal Diavolo, mentre Ofelia rinasce dalla terra sotto forma di rosa. È il suo ultimo disperato tentativo per avere un contatto con l'amato Principe. Un'ostinazione nel nome dell'amore che commuove Fortebraccio, tanto che dal suo fianco scompaiono sia la Morte che il Diavolo. Ma il destino si abbatte di nuovo contro i due. Amleto, vittima di un complotto, muore. Fortebraccio viene scongiurato di prendere in mano le redini del regno. La rosa, nuovamente vittima del suo amore, chiede al Cavaliere di essere recisa per essere deposta tra le braccia del suo principe. Fortebraccio riprende le armi in pugno, recide la rosa e si avvia verso il castello. Il Dubbio è cancellato.
Cavaliere di ventura è il testo scelto quest'anno dall'Istituto del Dramma Popolare per la tradizionale Festa del Teatro, che dal 1947, senza interruzione, porta sulla storica piazza del Duomo di San Miniato, in provincia di Pisa, il palcoscenico dello spirito, iniziativa unica nel suo genere.
Il regista Beppe Menegatti ha riletto il Cavaliere di Cavosi con forti connotazioni simboliche, puntando soprattutto sulla forza drammatica dei balletti affidati alla moglie Carla Fracci. La storia d'amore finisce per prevalere sulla ricerca interiore di Fortebraccio, l'uomo in crisi. Alla grande danzatrice è affidato il ruolo di Ofelia, ovvero «la dolcezza, l'illusione, la fragilità, il respiro dell'aria del mattino, la rosa che cerca la luce, ma soprattutto la tenera anima innamorata». Una delle novità per san Miniato è proprio la presenza del balletto, inserito in un dramma in prosa e con un ruolo non certo secondario. Alla danza, infatti, sono affidati quelli che la Fracci definisce «i momenti più coinvolgenti e di tensione spirituale».
Il rovello interiore del Cavaliere passa in secondo piano. Il Fortebraccio rivisitato da Menegatti assomiglia, anche per l'abbigliamento (un completo di tela bianca stile anni Trenta o Quaranta), al Fitzcarraldo portato sullo schermo nel 1982 da Werner Herzog. Così come il Diavolo, per continuare i riferimenti cinematografici, sembra uno dei Guerrieri della notte di Walter Hill con tanto di giubbotto e pantaloni da motociclista. Militareschi, come reduci, i due becchini, sempre in scena. Osservatori disincantati o persino burattinai dei drammi che si consumano sui tre livelli scenici: il luogo deputato dell'azione con sotto il cimitero e sopra una pedana da Commedia dell'arte in una sorta di teatro nel teatro.
«Sono un uomo che implora nuova dignità — afferma Fortebraccio presentandosi alla ribalta —, un uomo che abbandona la riva spiegando le vele verso l'Oceano... Sono venuto in questa terra unicamente per cercare di capire meglio i dubbi, i limiti, la paura e la solitudine dell'uomo». L'intento è quindi chiaro. Nel Cavaliere c'è la volontà di iniziare una ricerca spirituale attraversando, come dice la Fontana (simbolo della vita e della saggezza), «una ragione inesplorata» nella quale considerarsi «un apprendista», cercando di imparare da tutti perché ognuno potrebbe essere un maestro. Cercando anche, come avverte ancora la Fontana, «di non cadere nei vecchi errori». Da qui l'augurio: «Che il tuo piede sia leggero e la tua mente sempre rivolta al cielo».
Ma il Fortebraccio di Menegatti abbassa spesso lo sguardo, si ferma, si siede (anche materialmente), come uno spettatore passivo più che un regista attivo, ad osservare il dramma di Ofelia. Troppo preso dalla passione amorosa della giovane, sembra dimenticare il motivo del suo viaggio. E qui sta il limite della messinscena rispetto al testo. La stessa scena firmata da Luigi Del Fante ci presenta un cimitero ai piedi del castello di Amleto con le croci tombali delle donne shakespeariane morte per amore, da Giulietta a Desdemona.
Menegatti punta i riflettori su Ofelia, concedendole troppo spazio, specialmente nella seconda parte. E questo senza nulla togliere alla bravura della Fracci, che nel finale si rivela anche attrice raffinata dando voce (questa volta realmente e non con la danza) alla Rosa-Ofelia. Anche Virginio Gazzolo non ha colpe se il suo Fortebraccio non rispetta le promesse. Lui, da par suo, ce la mette tutta.
Dicevamo della simbologia: persino l'Agrimensore, più volte evocato dai becchini, si presenta in costumi secenteschi ma con in mano un casco da football americano, mentre il Principe del Dubbio è come un Pierrot. Troppi simboli, dunque, per uno spettacolo suggestivo, ma tutt'altro che immediato.
ANDREA FAGIOLI, L'Osservatore Romano, 26 luglio 1999
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