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Note di regia
 

Mettere in scena "I Templari" di Elena Bono ci ha obbligato a qualche ardua riflessione di cui Le siamo grati. Praticare un'arte comporta sempre più un duro confronto con la vita, perché l'ancoraggio sicuro di ogni attività estetica è il fare i conti con l'esistente, altrimenti può accaderci di diventare le prime, ingenue vittime inconsapevoli, dei miti sottesi ad ogni fare teatro.

Elena Bono è perfettamente conscia dei rischi che si corrono quando si ha a che fare con le odierne rinascite mitiche. Fare un dramma nel solco della tradizione, ripresentare antiche storie mai dimenticate, è muoversi tra grappoli di metafore, di parabole che costeggiano fino a individuarli i punti nodali e dolenti dell'umana vicenda, ricomponendo così in unità essenziali, in azioni simboliche, ciò che nel vivere quotidiano appare come un insieme di frammenti privi di senso. Ma viviamo anche di storie partorite da fantasie sbrigliate, di miti d'evasione e di fuga dalla realtà, a volte apparentemente poetiche, di fiabe ingannevoli, seducenti e fatali canti di sirene, in cui svanisce l'originaria passione di verità. L'uomo è un infaticabile costruttore di racconti, ma anche di idoli vani: l'inesauribile ricchezza del reale, la sua indicibile bellezza continua a porci antichi e nuovi enigmi e ci spinge nel vento di sempre nuove forme di contemplazione.

Metafora e mito instancabilmente spostano i confini del linguaggio umano verso orizzonti nuovi intravisti dalla capacità mimetica e simulatrice delle nostre facoltà cerebrali, e diventano una strada che accresce la conoscenza, sondando il mistero che l'uomo è a se' stesso. L'arte è una modalità diversa dalla sperimentazione scientifica e dai suoi codici e tuttavia appartiene di diritto all'esperienza umana più profonda.

La tragica vicenda storica della distruzione dei Templari, così come l'"oscuro" Medioevo, hanno suscitato in ognuna delle epoche successive, l'addensarsi di una variopinta congerie di "mitemi" dalle più diverse origini e provenienza. Sono entrati in circolazione racconti, cioè miti, che hanno dato a qualcuno l'impressione di poter riconfigurare e ricostituire in unità, l'incredibile complessità di quel mondo, che si ostina a non poter essere dimenticato, perché ancora ci affascina. Ma è un mondo che tiene in scacco noi posteri, abituati a vivere in realtà irrimediabilmente più semplici e compatte, almeno per chi vive in superficie. Si tratta di materiali eterogenei che ci promettono trame capaci di svelare tutto il mistero delle radici del nostro presente, grazie a elementi che si concatenano e si confortano solo per un breve lasso di tempo per poi decomporsi e subire continue metamorfosi fino a riconfluire in sviluppi del tutto inestricabili e indecifrabili.
Non dovrebbe meravigliarci ne' sorprenderci una pura verità paradossale: la gran parte di questi miti effimeri ha trovato ilIl palco in allestimento terreno di coltivo più propizio proprio nell'Età della Ragione, nell'aureo e celebrato tempo dei Lumi. Lo storico A. Viatte ha così valutato la tendenza "illuminista" di quel periodo: "Anziché attenersi alla realtà, accettandone gli angusti limiti, l'uomo del tardo secolo XVIII si rifugiò tra i fantasmi, soddisfacendo la propria nostalgia con le meraviglie offerte da impostori e negromanti. Una intera cultura stava crollando. "L'età del disincanto del mondo" appare così come una madre sempre incinta che non si stanca di partorire alchimie, ermetismi, astrologie e panacee, elisir, filtri, e talismani. Mentre una miriade di società segrete, di logge di Destra e di Sinistra tentano di affondare le loro fragili radici in un presunto medioevo meraviglioso, risuscitato a vita nuova. Lestofanti e ciurmadori, truffatori e poeti e scienziati dilettanti, cagliostri d'ogni risma e paese, illusionisti a loro volta illusi, spacciano le loro visioni redditizie di mitomani, accreditandosi tutti come i grandi iniziati di una sedicente sapienza arcaica, e tutti in possesso di formule arcane che pretendono illuminare la condizione umana e i contorni del tempo avvenire affrancando l'uomo dai suoi limiti.

Elena Bono esplora questo variegato arcipelago, frutto velenoso di volontà di potenza e di frustrazioni spiritualiste, di fughe nell'irrazionale, di deliri e allucinazioni estranei allo spazio e al tempo, maschere inquietanti del nulla, e riesce a non smarrire la rotta. Sa contrapporre a queste favole suggestive e inquietanti, i più demitizzanti dei miti, i racconti della grande tradizione ebraica e cristiana, amorosamente raccolti e radicalmente realisti, testimoni di millenni di storia, concatenazione organica che comprende in se l'alfa e l'omega del tempo e dello spazio. Così il racconto della Grande Tentazione e il racconto del "capro espiatorio" sono l'ago della bussola che ci fa approdare a comprendere quanto sa di sangue ogni mito che nasca da un pensare che si creda liberato dal limite, onnicomprensivo, dove tutto si afferma fuori della responsabilità di fare luce, consegnando l'uomo alla solitudine delle paure che lo dominano. Non resta che seguire l'ammonimento manzoniano sui fatti delle "unzioni" nei tempi della peste di Milano: "Noi proponendo di fissare lo sguardo sopra orrori già conosciuti crediamo che non sarà senza un nuovo frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne. si rivolgeranno. contro passioni che non si possono bandire, come falsi sistemi, ne' abolire, come cattive istituzioni, ma rendere meno potenti. e funeste col riconoscerle nei loro effetti e detestarle. Di tali fatti si può bensì essere forzatamente vittime, ma non autori.".


Pino Manzari
Luglio 2002




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