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La recensione di Tommaso Chiaretti
 

Il martirio di Giobbe
«Da oggi meno Papa» apparve scritto in una delle quotidiane disposizioni del Minculpop, il giorno in cui vi fu dell'attrito tra le due autorità ufficiali. E io anelo a qualche ingiunzione del genere. Direi proprio una bugia, se facessi finta che il fatto che a San Miniato si desse una tragedia scritta in gioventù da Papa Wojtyla, sia cosa di scarso interesse giornalistico. So benessimo che nessuno si prenderebbe la briga di tirar fuori da qualche cassetto la prosa (o la poesia) di un giovane prete se costui non fosse diventato Papa. E di sicuro il Vaticano non l'avrebbe pubblicata come un succulento inedito. Ma d'altra parte debbo legittimamente (o no?) sperare che questo Papa non sia come le primedonne della lirica, pronte a fulminare di anatemi i critici dissidenti.
Per quel che mi riguarda, non dirò più niente. Se valete, proprio trascinato per i capelli, dirò che di queste tragedie ne son pubblicate a decine, per la spesa di imberbi e non papabili giovani pieni di speranze letterarie e civili. Farò pure magari sfoggio di un po' di conoscenze e dirò che pure in Italia ci fu un Giobbe, ed era un divertente pasticche ottecentesco firmato da Marco Balossardi, che era Olindo Guerrini, che fu pubblicato nei classici del Ridere, ma questo non c'entra.
Importante, invece, da parlarne senza irritazione, è la regia con cui il Giobbe ci viene proposto. A firmarla come supervisore, è un esperto in papi, Krzystzof Zanussi, e la regia è poi firmata da Aleksandra Kurczab. E può darsi che entrambi abbiano contribuito con intelligenza a farci trascurare l'illustre ascendenza della firma. E nonostante abbiano essi, con una insistenza processionaria, trasformato quella apparizione finale simbolica della croce in una sorta di ascesa prevedibile al calvario, cioè sulla scalinata di piazza del Seminario, tuttavia di sicuro questa regia ha avuto momenti di vera attrattività.
Soprattutto è parso intenzionalmente efficace quel modo di dar significato ai patimenti, alla cosiddetta « pazienza » di Giobbe, molto al di là delle intenzioni esplicite, facendo del testo un punto di riferimento che non ha, delle aggressioni che l'uomo deve subire oggi da parte della società ostile dei nostri giorni. Perché d'un tratto, quella scenografica piazza si anima di rumori di motociclette, e in essa irrompono dei giovani teppisti armati di catene, che mimano due dei più gravi delitti del sadismo politico degli ultimi anni: l'uccisione di padre Popielusko, e quella di Aldo Moro.
Credo sinceramente che non si potesse rappresentare un evento così drammatico del nostro vivere civile con una discrezione aggressiva maggiore di quella che ha avuto Zanussi. In quel momento si è capito che davvero il testo di Wojtyla non c'entrava per nulla, che semmai da esso potevano venire le sole citazioni proprie dell'epoca in cui è stato scritto, appena quella casacca da prigioniero che appare addosso ad uno dei personaggi. Ma Aldo Moro, e Popielusko, quelli son creature dolorosamente presenti in noi, ed averle evocate senza ricatti è parsa una intenzione assai alta.
Forse è stata una invenzione più alta del personaggio di Giobbe: il quale per lungo tempo si avviluppava delle parole letterarie, nei versi o forse di Péguy, o di Paul Claudel, in una letteratura non molto felicemente invitante al teatro, in ripetizioni ossessive di concetti abbastanza banali. E se li dico banali non è per il rifiuto a comprendere le ragioni mistiche della poesia. Ma è proprio la esplicita ricattatoria intenzione mistica, che così uccide l'ispirazione. Se fosse un oratorio, questo Giobbe potrebbe essere una sorta di Martirio di San Sebastiano senza le bellezze formali di D'Annunzio, ma il personaggio, in ogni caso, faticherebbe a uscire dal dramma ovviamente posto dell'uomo pio e giusto che non capisce perché la divinità lo colpisca così duramente. Vuoi metterlo alla prova? Vuole tentarlo? Vuole sottometterlo al fascino ribelle del demonio? Non so, e in definitiva questo problema, questo dramma, non fa nulla per interessarmi.
Ma mi interessa, e addirittura in certi momenti mi affascina, la drammatizzazione che ne ha fatto Zanussi: trasformando la piazza del Seminario davvero in una ripida altura dove si aprono le botteghe del suk, del mercato, e i personaggi in straccioni di una scoscesa terra biblica.
Qui arriveranno con violenza i portatori di aggressione. Ma qui anche Giobbe, e i rappresentanti del coro che parlano con lui di strani uomini di un oggi formaliìstico, come fossero dei parenti del padrino, con abiti bianchi che contrastano con I'apparenza nera di lui, che indossa una sorta di strano guru. E qui nascono anche dei momenti di bella tensione, come l'acqua che improvvisamente scende lungo le scale, e che in qualche modo ci riporta alla tragedia che si è appena vissuta.
Assai meno felici quelle luminarie, o fuochi di artificio, o bòtti, che trasformavano la serata in una festa del paese. Accanto a Giobbe un efficace accalorato Ugo Pagliai, recitava Paola Gassman, biancovestita nella parte singolare del profeta Eliu. E c'erano Fiorella Buffa, Filippo Alessandro, Giorgio Biavati, Gian Luca Farnese, Adriano Giraldi e Massimo Franceschi. E c'era anche Tony Cucchiara che, con chitarra e voce forte, cantava la storia di Giobbe al principio e alla fine ma non riusciva (certo non era sua la colpa) a farla crescere troppo. Magari una intonazione brechtiana sarebbe stata un nonsense, ma lo avrebbe aiutato a porgere qualcosa che lui di certo non sentiva come proprio.
Tommaso Chiaretti La Repubblica, Roma, 27 Luglio 1985




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