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"La testa del Profeta" di Danimar
 

La testa del profeta di Elena Bono,

dramma biblico

 

But vain the Sword & vain the Bow,

They never can work War’s overthrow.

The Hermit’s Prayer & the Widow’s tear

Alone can free the World from fear.

W. Blake, The Grey Monk

 

 

È forse opportuno cominciare sempre dal Libro, soprattutto quando un libro lo interroga, lo provoca, e testimonia del transito della sua Parola in un cuore umano – come nel ventre di Ezechiele quando mangiò il rotolo che Dio gli offriva (Ez 3,1-3) – effondendola di nuovo, sulla scena del teatro e dell’esistenza.

Questo dramma illumina in modo molto limpido, e proprio per questo molto perturbante, quella che sembra essere la specifica e terribile vocazione della morte del “più che profeta” Giovanni: la lotta, oscura e midollare, e il quasi insolubile intreccio, tra due prospettive: quella del mito, con la sua umida avvolgente circolarità, e quella della Scrittura, il cui Soffio ardente e assetato aggredisce l’apparente compiutezza del mito, come il vento del deserto assedia la fortezza di Macheronte, luogo dove si svolge l’azione. Laddove l’arte barocca amava proiettare su questo groviglio i suoi fasci di luce obliqui e sublimi, e l’arte decadente si compiaceva di raccoglierne i fremiti più sfuggenti, le risonanze psichiche estreme, l’opera di Elena Bono recupera imperiosamente lo sguardo tragico e totale della Bibbia: sceglie la fedeltà al groviglio umano e divino, ma una fedeltà straziata, coltivata in modi impensati con una regale ricchezza d’invenzione.

Il profeta-“più che profeta” attrae a sé tutto il molteplice, preciso gioco del mondo: tutto è magnetizzato dalla necessità del suo sacrificio, sia le chiuse passioni che il logos atroce della politica. Eppure, questa necessità, soprattutto quando è intravista o duramente contemplata, è (biblicamente) lo scandalo. Il potere, la conservazione del meccanismo mondano, si svolge, in realtà, non linearmente, ma sinuosamente, con spire serpentine, al richiamo – come del suono obliquo di un flauto orientale – della fede: serve l’Evento; non solo tutto è permesso da Dio ma, in questo gioco di specchi e d’enigma, tutto è portato da Dio. Il potente disegno dell’opera, la sua scrittura, che è lettura di tutto il testo biblico in tutte le sue dimensioni, si svela esemplare (con un tratto mirabile di ermetica erraticità) di quella che, a giudizio di chi parla, è la grande vocazione drammaturgica di Elena Bono: battezzare Dioniso nel Giordano di Giovanni, ovvero il tragico greco nelle acque tempestose e purificanti del messianismo ebraico e cristiano; battezzare il verso finale delle Trachiniekoudèn toutōn ho ti mē Zeus – “e non c’è niente di ciò che non sia Dio”. Nel patimento dell’uomo il divino è tutto presente, non tanto però perché Deus vult, perché Dio lo voglia; anzi, quando l’uomo crede di poter conoscere e indirizzare la volontà celeste, come nel discorso di Caifa sulla morte del Cristo, in realtà si addensa la tragica ombra, e quella del Gran Sacerdote è una profezia, cfr Gv 11,49-52: ma perché Deus tollit, perché Dio lo prende su di Sé, già nel Suo Precursore, nel Suo Elia che è Giovanni. Giovanni precorre in tutto: la sua morte nascosta, nel carcere, prepara, inizia (come il battesimo d’acqua quello di fuoco e spirito) la morte, sul monte, di Gesù. Qui emerge, appunto, il parallelismo perturbante del mito: Gesù sacrificato in un rito maschile, primaverile, diurno – la lucidità politica di Caifa, la tollerante impotenza di Pilato, l’eterno alibi di Erode, l’infedeltà degli amici e della Città, incarnata dagli uomini dell’ordine religioso –; Giovanni sacrificato in un rito femminile, notturno, di mezza estate. È falciato come un sole segreto in una notte dominata dal volto cangiante della luna; e così c’è la lunarità isterica di Erodiade, miserabile Ecate, l’adultera incestuosa che si vuole Iside, e non può vedere nello specchio del proprio delirante narcisismo il vero riflesso: l’altra luna, la figlia Salomè, nel cui ritroso e sfuggente lucore di perla o d’argento si affina, si estenua il crudo raggio della madre, e appare come la passività e la dolcezza della lunare coniglietta – ma sul rovescio sta la faccia ancor più nera dell’astro, quella pace negativa (cui il nome della giovinetta allude)[1] e vuota della piscina di Mallarmé,[2] il delicato abisso precosmico sul quale traccia le esili figure della sua danza di morte. Proprio queste figure sa tracciare, con la pieghevolezza e l’esattezza della sua parola, l’arte della Bono, che scivola dietro la scena del racconto scritturale mostrandone la tragica machina, e di lì addita quella scena, la danza nel convito (su cui indugia morbida l’immaginazione romantica e post-romantica), come l’obscoenum stesso, con grande sapienza drammatica e finezza di lectio biblica. Ed è parimenti finissima l’intuizione di Salomè come “nuova generazione” destinata, secondo la desolata saggezza del Qohelet, a scoronare la madre per ripetere e conservare tutto, tutto il gioco. Ancora è lunare Erode “figlio d’eroe”, il toro idolatrico sotto chiave nella sua stalla di re fantoccio, tributario dei gentili, con la sua virilità disfatta e inerte, il suo disgusto di senex che non riesce a disperarsi per stanchezza; Erode il discendente dei Maccabei che finisce incastrato da un giuramento frivolo e fatale alla vivente immagine, fatta impalpabile idolo (promessa, appunto, di nullificante “pace”), della propria perdizione. La chiave della parata è tenuta – sembra esserlo – da un personaggio mirabilmente evocato, Cusa, il ragno, il tessitore, il sacerdote egizio della politica: l’intendente di Erode, colui che più di tutti odia Giovanni perché ha rubato il figlio Daniele a lui e al mondo, così come il Ladro delle anime gli ha rubato la moglie, che Lo serve (figura stupendamente biblica ed ebraica) con i suoi beni maledetti; e lo odia con l’odio più gelido e perfetto, proprio per il vivo e segreto tormento della paternità delusa e traditrice. Così la presenza, rimossa ed insistente, del santo è un giudizio per tutti, anche se operante sul rovescio dei fatti: tutti si svelano, e tutti sono sconfitti. Sembra sfuggire alla pungente, trafiggente confutatio solo Salomè, amata dall’innocente Daniele con un amore in cui è la primizia della carità verso l’originaria innocenza della fanciulla, sfondo puro della sua passiva morbidezza, e sua possibile redenzione: ma l’innocenza di Salomè si corrompe quasi inavvertitamente al contatto stuprante del mondo, scivola nella propria ombra lunare; quella di Daniele (vir desideriorum come il profeta della cattività babilonese) patisce invece la vera violenza, lo scandalo che rende tutto impossibile, l’unico scandalo, quello della promessa paterna delusa, doppiamente, nel padre carnale e in quello spirituale. Con Giovanni incatenato in carcere, veramente il mondo è distrutto, veramente è apokalypsis: ma in incognito, in un battesimo d’acqua e tenebre; e tuttavia ciò è un segno anche della morte esibita, l’innalzamento, e la resurrezione, di Gesù: poiché il Suo battesimo definitivo, di fuoco e spirito, si manifesta, nella morte di croce, come un battesimo d’acqua e di sangue, un nascondimento sempre più paradossale e scandaloso; il mondo è come prima (anzi, Erode e Pilato si riconciliano, ci racconta Luca), eppure il mondo è giudicato, perché il suo male segreto è esploso nella malattia che modella orrendamente il corpo della Vittima d’Espiazione, dell’Agnello crocifisso.

Giovanni stesso aveva mandato a chiedere, dalla segreta: “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2). I suoi discepoli umiliati (il buffone e il guardiano del Tetrarca, Abba Dima[3] e Daniele), dopo la morte del Precursore forse seguiranno Gesù-Messia, ma ormai sanno il destino dei profeti disarmati (che “tutti” necessariamente “rovinarono”, secondo la bronzea parola di Machiavelli in esergo):[4] la loro fede sarà la stessa di Giovanni, e in fondo la stessa di Gesù, che sa la propria vittoria e insieme la crede, in quanto uomo sconfitto. Il Messia disarmato ha anche esortato a comprarsi una spada, e ha detto d’esser venuto come una spada: e poiché accetterà insieme e la lotta e la sconfitta (una povera fuga, una preghiera nell’Orto, il grido sulla Croce), allora il suo “rovinare” è la primizia della Pace (non la pagana pace dell’annullamento, di Salomè, né quella paganamente politica, tra Erode e Pilato), come intuisce Abba Dima, povera Cassandra dell’esilio ebraico, faccia da sputi. La Pace è da venire, troppo bene lo vede il vero israelita, Daniele: eppure è anche racchiusa (come da uno scrigno) nel segno della sconfitta, perché segno della guerra apocalittica che intronizzerà l’Agnello, il Dio che vuole redimere i poveri, il Medico che è venuto solo per i malati.

La testa di Giovanni è quindi segno della morte di Gesù in quanto Testa del Corpo Mistico: entrambe sono parti più forti del tutto, simbolo incarnato (e quindi inveramento) del Resto d’Isaia, del “verme di Giacobbe” che schiaccerà e giudicherà le bestie idolatriche, la Bestia: del piccolo popolo che, secondo i rabbini, mangerà la carne di Leviatano e di Behemot, cioè la cruda potenza del mondo e l’oscura potenza sacrificale della natura.

Behemot e Leviatano cooperano per martirizzare Giovanni: sulla scena pesa il fascinans del rito sacrificale che si svolge in accordo con gli astri e i cicli (vi alludono, grottescamente, gli astrologi babilonesi stipendiati da Erodiade), e quello dell’idolatria politica, il posto del dolore usurpato dal riso dell’odio (Cusa), la fredda Wille che, quasi parodia del tempo perfetto delle profezie e della fede orante, delibera e agisce come tutto fosse già accaduto; sono entrambi l’unico Serpente, l’incantatore cananeo e l’astuto. Anche il tragico lealismo ebraico (come quello dell’antica Ester), straziato tentativo di equilibrio nel pozzo dell’esilio, finisce per logorarsi, per allearsi con l’Aquila, come fa il sacerdote Anna con il Tetrarca e gli odiati romani; e la saggezza temperata, come il vino dei conviti, del filosofo Clizia è perfettamente e dignitosamente sorda ai goffi e terribili Segni, è un’etèra in più al banchetto, e il suo aureo equilibrio di amabilità e gravità è già pronto a sciogliersi nelle future risate ateniesi sull’Areopago, all’indirizzo di Paolo. Ma Gesù è davvero Serpente di Bronzo (e colomba), vittima e insieme crocifissione della politica: scontando in Sè Stesso tutto il processo, non è vittima del processo ma di Dio. Egli infatti restituisce la moneta al Cesare: è sua; così inizia il giudizio, la separazione, così i giusti si giustificano e i dannati si dannano. Non è che si debba pagare il tributo, come hanno letto in troppi (i figli sono esentati anche dal didramma templare), ma restituire la moneta idolatrica all’idolo; se hai la sua moneta nella borsa, sappi che non ti appartiene, che devi rendere a Dio la Sua immagine, cioè te stesso, proprio rendendo al Cesare la sua. La politica del Messia è ricevere dall’Impero lo stigma del servo, e questo servo è l’Eved, il Messia Agnello: non lo si confonda con il Divo Cesare, con l’Everghete, col Filadelfo – con il loglio. Il cerchio non potrà mai quadrarsi: solo lo svuotamento del mondo affretta il Regno; i regni umani sono lasciati essere per la Misericordia e il Giudizio, per rendere il miracolo finale perfetto e perfettamente impensato.

Dalla platea, ormai trasformati ed istruiti dal pathos, ci sembra che la rudezza della sentenza del Machiavelli alluda, in finem, alla rudezza stessa della Croce. Lo scherno di Daniele, dopo la morte del maestro, dopo tutta la scena, è dolorosamente veggente: è vero che il carnefice è stato l’unico a vedere il Signore atteso da Giovanni; è vero, è stato l’unico perché ha partecipato col Profeta alla morte, se ne è caricato, mentre i “politici” intriganti o banchettanti fanno solo spazio al martirio, è giusto che si sentano, almeno a tratti, pupazzi ed ombre. L’unica libertà appare quindi, a quell’estremo di derelizione, il contatto impuro e purificante, tragico, con la morte, la morte del santo.



[1] Salomè=“pace”.

[2] Cfr il poema Hérodiade, di Stephane Mallarmé.

[3] Dima o Disma è il nome che la tradizione attribuisce al “ladrone” crocifisso alla destra di Gesù, quello che riconosce il Messia nel suo compagno di patibolo.

[4] “Di qui nacque che tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno” (Il Principe VI, 6).




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