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La recensione di Sergio Colomba
 

Socrate contro Enrico VIII
Puntuale come ogni anno a fine luglio, si è inaugurata la XXVIII edizione della Festa del Teatro a S. Miniato, organizzata dall'Istituto del Dramma Popolare.
L'iniziativa persegue il fine di far conoscere al suo pubblico, e in un secondo più vasto momento a tutto il pubblico italiano, drammi d'ispirazione religiosa e di autori contemporanei, che si rivolgano all'attualità ed alla sensibilità del nostro tempo. Nello scenario di verde e di pietra antica di una tra le più caratteristiche piazze toscane, sul sagrato del Duomo, è andato in scena ieri sera Un uomo per tutte le stagioni, di Robert Bolt, allestito con la regia di José Quaglio appositamente per questa manifestazione.
Parliamo prima del testo: A man for ali seasons sbuca nel 1960 dal pletorico, ma in complesso grigio, panorama della scena inglese di quegli anni, e costituisce la narrazione drammatizzata degli ultimi anni di Thomas More, con le lotte di Enrico Vili per l'affermazione dell'anglicanesimo e col martirio finale dell'ex Lord Cancelliere.
La morte serena, la fermezza di questo Socrate inglese (cosi usava chiamarlo l'amico Erasmo, che gli dedicò anche il suo Elogio della pazzia) offrono dunque a Bolt la possibilità di ripescarne il «messaggio in bottiglia» lanciato 400 anni fa nelle acque del Tamigi. Il drammaturgo inglese si autodefinisce scrittore popolare, lontano da sperimentalismi, e ben ne dà conferma questa sua opera di certo non eccelsa levatura, che di popolare ha soprattutto la volontaria ispirazione a canoni brechtiani, come l'inserimento del personaggio che commenta l'azione rivolgendosi al pubblico. Ma una cosa è professare certa fede teatrale, altra cosa inseguirne con civetteria gli orecchiamenti: Bolt (come Pinter o Arden) arriva al teatro attraverso l'esperienza radiofonica e televisiva di sceneggiatore, e il suo testo (a differenza di quelli degli altri) lo ricorda in certi passaggi can maligna eloquenza.
Il dramma di Thomas More, viene così relegato in una dimensione familiare, le lotte di religione che sconvolgono l'Inghilterra ruotano anch'esse in questo piccolo universo di sapore piccolo-borghese, con la moglie Alice che si preoccupa perché il Cancelliere non faccia arrabbiare troppo la graziosa Maestà.
Come si è regolato il regista Quaglio, con un copione così in mano e con un manipolo di buoni attori ingaggiati per l'occasione? Saggiamente (ma fino a un certo punto) ha scelto la via di un'esecuzione dignitosa e composta, accuratamente recitata e scrupolosa del testo persino in quei risvolti da «radiodramma» cui si riferivano prima. Lo spettacolo, curatissimo e raffinato, manca insomma di quel movimento intcriore, di quella fantasia inventiva che una regia più «impostata», avrebbe potuto imprimergli. E' forse l'occasione stessa, il tono da spettacolo commissionato che fa uscire dagli spiragli quell'aria fredda di museo, un po' spiacevole ad avvertirsi. Ma è indubbio che il racconto viene trattato con attenta misura, specialmente nel secondo atto, quando gli avvenimenti precipitano e Aroldo Tieri asciuga, scava meglio l'interpretazione del Cancelliere-martire. Fatta però eccezione per le scene del processo, dove troppo si insiste sul tono didascalico e sugli effetti creati da Bolt (il quale, da buon pirata, sapeva come trattare certe situazioni: lo ha dimostrato anche con la sceneggiatura del film tratto dal suo lavoro, nonché con quelle dei colossal Lawrence d'Arabia e Dottor Zivago).
Oltre a Tieri, gli attori superano con destrezza la prova sanminiatese: Giuliana Lojodice è naturalmente l'affettuosa ed apprensiva moglie Alice, Carlo Hintermann un asciutto duca di Norfolk, costretto a perseguire l'amico More per capriccio del re; Antonio Salines deve mostrarsi un Cromwell velenosamente subdolo ed infido: lo fa con intelligenza, sul filo del feuilleton.
L'impianto scenico è semplicissimo, costruito con intelaiature e ponti tubolari, dove gli oggetti di scena vengono infissi e rimossi dal «brechtiano» Salvatore Puntillo. La scena più bella rimane ovviamente la facciata del Duomo retrostante. I costumi di Umberto Bertacca sono rispettosi della tradizionale iconografia cinquecentesca, con giubbe ricamate, maniche a sbuffo e colli di pelliccia: pochissimo ico il dramma che si avvale d'una vena d'humor squisitamente e un po' hippy, che ricorda l'esorcista dei Diavoli di Ken Russell.
Sergio Colomba Il Resto del Carlino, Bologna, 26 Luglio 1974




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