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Toscana Qui - La recensione di Paolo Lucchesini
 

I prodigi sono prossibili basta crederci
Come sia nato precisamente il teatro, se dal mimo in piazza, o dal sacerdote presso il tempio, o forse lo stregone che intenzionalmente partecipava dell'uno e dell'altro, non lo sappiamo, non possiamo fare se non congetture, più o meno plausibili. Ma una cosa è certa: da quando l'originario spettacolo, di goffo e rozzo o già ambizioso che era, divenne arte, con una sua nobiltà, la sua prima missione fu questa: farsi tramite d'un messaggio religioso alla folla". Così si espresse Silvio D'Amico il 9 luglio 1954 in occasione dell'inaugurazione del Teatro Verde, opera dell'architetto Luigi Vietti, disposto nell'isola veneziana di San Giorgio Maggiore, sede della Fondazione
Giorgio Cini che comprendeva il Centro internazionale d'arte e cultura. Artefice della prima produzione il Teatro alla Fenice in collaborazione del Maggio fiorentino, con Resurrezione e vita, elaborazione del dramma sacro Ego sum resurrectio et vita, spettacolo multimediale allestito da Orazio Costa: musica, prosa, balletto. Un trionfo. Il Teatro Verde ospitò subito alcuni spettacoli della Biennale: Le baruffe chiozzotte e, novità assoluta, i No giapponesi con il Teatro imperiale di Tokio. Il teatro, però, non ebbe troppa fortuna, presto dimenticato. Una fiammata, forse l'apice di una diffusa, trionfante teatralità spirituale, se non addirittura religiosa, irradiata nell'intera nazione dal vivido polo cattolico dell'Istituto
del dramma popolare di San Miniato attivo ormai da un decennio. Momento euforico - una serie di spettacoli di altissimo livello - che si avverte proprio nelle suddette parole di D'Amico: il critico, infatti, non esita ad attribuire il primato drammatico a un teatro religioso, popolare. Ma proprio negli anni che seguirono la liberazione anche altri critici di diverse estrazioni filosofiche e politiche furono ben consapevoli di una crescente "domanda" di spiritualità e, di conseguenza, una febbrile produzione di una specifica drammaturgia.
Già nel 1947, invitato al congresso eucaristico di Chicago in cui si discuteva anche di divulgazione e proselitismo cattolico, D'Amico invocò la costituzione
di istituti per rappresentare opere religiose, che avessero "rispondenza nell'anima d'una folla moderna". Aggiungendo: " Gran sogno, ma ancora troppo bello. Vi pensiamo come a una meta suprema. Ma un giorno chissà". E non sapeva che durante il suo lungo ciclo americano di conferenze, in Italia sorgeva l'Istituto del dramma popolare. Il sogno di Silvio D'Amico era già realtà. Tornando in Italia seppe che l'ente sanminiatese aveva allestito sul prato del Duomo La maschera e la grazia di Henri Ghéon, ispirata alla vita e al martirio di Genesio, regia di Alessandro Brissoni: al ritorno in patria, per un certo verso, rimase dispiaciuto di non aver presenziato di persona alla nascita di un'istituzione che aveva vagheggiato da tempo e che, comunque, considerò sempre sua.
Ma il 1947 fu cruciale, oltre che per le sorti del teatro, per lo stesso Paese: il governo, formato da tutti i partiti democratici della Resistenza, fu frantumato in seguito al famoso viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti. Il presidente del consiglio estromise i partiti della sinistra. Il fitto dibattito intellettuale fra cattolici, laici e marxisti da scambio di ideologie divenne, in massima parte, uno scontro testa a testa, una guerra fredda di parole fra presenze intellettuali contrapposte decise a conquistarsi propri strumenti e spazi culturali: editoria, teatri, cinema. Per quanto riguardò il teatro si mosse per prima la sinistra con il Piccolo Teatro di Grassi e Strehler (14 maggio), primo ente stabile italiano, impegnato, acculturato, rigoroso, in chiara opposizione al vecchio teatro girovagante, mattatoriale; i cattolici risposero prontamente (17 luglio), accendendo le luci della prima Festa del teatro di San Miniato, unica cittadella culturale bianca nella rossa Toscana.
Così cominciò l'avventura teatrale dell'Istituto del dramma popolare, fondatore e presidente Giuseppe Gazzini, già collaboratore fondamentale don Giancarlo Ruggini che, fino al 1971, fece la fortuna di un anomalo festival estivo concettoso e spirituale, nient'affatto confessionale, invitando a realizzare gli spettacoli artisti di ogni tendenza politica. La storia dell'istituto è ben lunga da raccontarsi in queste pagine - chi ne volesse sapere di più per il periodo 1947-1979, si metta in caccia della Maschera e la grazia di Andrea Mancini, il titolo è lo stesso dello spettacolo inaugurale, reperibile nelle biblioteche o nelle librerie dell'usato - ma possiamo, comunque, sintetizzare evoluzioni e involuzioni, fasti e declini dell'istituzione. La prima crisi si verificò con la morte di don Ruggini, proprio quando si andava manifestando una crescente carenza di nuovi testi da rappresentare, una reale scomparsa di vocazioni. Si aggiunse un periodo di precarietà dirigenziale, determinata da una notevole ingerenza della Chiesa locale. Le scelte dei testi a disposizione furono obbligate per un ristretto e modesto ventaglio dell'offerta; poche le opere di buona lega; molte allestite frettolosamente, alcune affidate a registi discutibili. Ciononostante, nel secondo ventennio, sono apparsi spettacoli ragguardevoli (giusti il testo, la regia, la distribuzione dei ruoli, una reale teatralità ma, sinceramente, si possono contare sulle dita di una mano (uno per tutti Fiorenza di Thomas Mann, regia del compianto Aldo Trionfo); per contro errori macroscopici consumati nel segno dello star system (vedi il Giobbe di Papa Wojtyla devastato dall'intervento registico a distanza di Zanussi). Altri elementi negativi il totale autoisolamento nei confronti delle istituzioni teatrali della regione e la perdita di prestigio nei confronti del ministero con conseguenti minori contributi.
Toccato il fondo, d'un tratto, l'istituto sanminiatese si scuote. Incalzato da più parti a rivolgersi alla fresca verve della nuova drammaturgia - un serbatoio di talenti a lungo ignorato per anni - il direttore artistico don Luciano Marrucci, affiancato da Andrea Mancini, lancia un concorso originale rivolto ai critici perché presentino nuovi testi di nuovi autori.
Ma accade di più. Pietro Cartiglio, direttore del Teatro di Roma, si schiera a favore di San Miniato per rilanciare il festival: come prima iniziativa propone La sacra rappresentazione di Santa Uliva, regia di Mario Missiroli, ma lo spettacolo si arena. Ciononostante il Teatro di Roma resta al fianco dell'istituto per attivare un ciclo produttivo extra festival di novità dei giovani drammaturghi segnalati dalla critica. Saltata Santa Uliva, in attesa di una totale rinascita ideativa, San Miniato si aggrappa a un pilastro della cinematografia, ben conosciuto dai patiti del grande schermo ma che, in realtà, ha una nobile origine squisitamente teatrale. Diciamo di Ordet (Il verbo) il capolavoro di Carl Theodor Dreyer premiato con il Leone d'Oro al Festival di Venezia del 1955.
Il maestro danese però, per la sceneggiatura si era ispirato all'opera teatrale omonima di Kaj Munk, drammaturgo, pastore protestante, scritta intorno al 1925 e rappresentata a Copenaghen soltanto nel 1932, Non solo, il film di Dreyer fu preceduto da un'altra versione filmica diretta dallo svedese Gustav Molander del 1943.
Il dramma di Munk, complesso e problematico, vuole dimostrare la possibilità dei miracoli. Se essi non si manifestano più dipende da una fede perduta: credere fortemente in Dio significherebbe credere ai prodigi celesti. Ordet suscitò non poche polemiche e discussioni in tutta la Scandinavia. A distanza di quasi settant'anni, in un'epoca della totale caduta delle ideologie e dei comuni valori morali, Ordet è un richiamo alla speranza. Nel ruolo protagonista di Mikkel Borgen, un grande attore, Mario Scaccia.
PAOLO LUCCHESINI,Toscana Qui luglio-agosto 1992




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