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L'Unit� - La recensione di Aggeo Savioli
 

La vendetta di un povero «Cristo»
Gli abitanti di questa splendida cittadina toscana, per esperienza diretta o per i racconti ascoltati dai loro anziani, hanno buona memoria della tragedia da essa vissuta cinquantanni fa, quando, dopo mesi duri e cruenti di lotta partigiana, e di feroci rappresaglie naziste, la guerra tra l'esercito di Hitler e le truppe alleate liberatrici si fece, qui, ai ferri corti. Chi abbia visto il bellissimo film dei fratelli Taviani La notte di San Lorenzo ne ricorderà almeno alcune immagini, fortemente evocative di quei giorni e di quel clima. Se ne ritrova, ora, un'eco o un riflesso nello spettacolo che si dà, sulla piazza del Duomo, fino al 20 luglio, e che segna la quarantottesima tappa, estate dopo estate, della Festa del Teatro, promossa dall'Istituto del dramma popolare. Parliamo del Cristo proibito, che fu, nel 1950-'51, un film scritto e diretto da Curzio Maiaparte, rielaborato adesso per la scena da Ugo Chiti e da Massimo Luconi; il quale ultimo ne è pure il regista (avendo alle spalle altri confronti, in varie forme, col mondo malapartiano). Dallo schermo alla ribalta, la sostanza della vicenda non muta: siamo nell'immediato periodo postbellico, e assistiamo al ritorno a casa di Bruno, reduce dal fronte russo e dalla prigionia; ossessionato, oltre e più che dai patimenti subiti, dall'ansia di conoscere, e punire, chi, tra i suoi compaesani, denunciò e fece fucilare il fratello, combattente della Resistenza. Ma la piccola comunità, gli amici, le ragazze a lui in diverso modo legate, la famiglia stessa sono, con Bruno,
sfuggenti e reticenti, anche se sanno, e dominante sembra la propensione a perdonare, o a dimenticare. Finché al desiderio di vendetta (o di giustizia privata) del protagonista fa ostacolo, fino al sacrificio della propria vita, Padre Antonio, un prete che, del resto, porta con sé il rimorso d'un delitto compiuto tanto tempo addietro, prima di indossare l'abito talare.
Dell'opera cinematografica di Maiaparte (l'unica portata a termine dal famoso quanto discusso giornalista e narratore) si rilevarono, all'epoca, la pesante ambiguità del messaggio e, soprattutto, la verbosità declamatoria, che, non di rado, trasformava i personaggi in sputasentenze. Comunque, nemmeno il teatro sarebbe stato la più felice delle sue vocazioni (rammentiamo con melanconia un titolo, teatrale appunto, di poco successivo al Cristo proibito, e dal tema vagamente affine, Anche le donne hanno perso la guerra). Nell'adattamento odierno, i toni apodittici si attenuano, e a risaltare è piuttosto la spoglia verità umana della situazione, che prende corpo, in particolare, nelle figure di contorno, femminili in primo luogo. Vi si respira dunque, nei momenti migliori, l'aria, aspra ma salutare, e non libresca (non dei tutto, almeno), di una provincia profonda, còlta in un momento storico terribilmente esemplare; e vi si avverte la mano, per tale aspetto, di Ugo Chiti drammaturgo e capocomico: giacché, poi, i nomi più «di cartellone» del cast sono stati inseriti fra gli elementi, bravi o bravissimi, della compagnia «Arca Azzurra» (basti citare Patrizia Corti, Ilaria Daddi, Lucia Socci, Andrea Costagli, Dimitri Frosali). Claudio Bigagli è Bruno: attore molto differente dal Raf Vallone voluto da Malaparte, rende con efficacia (ai limiti, forse, del monocorde) la cupa fissazione del suo triste eroe. Gli si oppongono il pacato ma sofferto ragionare di Massimo De Francovich nei panni di Padre Antonio, e la dolente rassegnazione della Madre, incarnata da Lucilla Morlacchi. La regia di Luconi e le altre componenti dell'allestimento (scenografia agile di Stefania Battaglia, costumi di Giovanna Buzzi) concorrono alla dignità del quadro.
Di bell'effetto quel gran lenzuolo bianco che, alla fine, ricopre simbolicamente i vivi e i morti, i sommersi e i salvati, gli scherani della tirannia e i militanti delia libertà. Non vorremmo, tuttavia, che tutto ciò dovesse risultare conferma della «sanatoria generale», oggi in atto, per i crimini del fascismo di ieri, per le malefatte dei suoi eredi e rappresentanti.
AGGEO SAVIOLI, L'Unità 19 luglio 1994




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