Il miracolo di Dreyer? Lo ripete Scaccia...
Pareva impensabile che si potesse ricondurre alla matrice originaria di teatro un capolavoro del cinema come Ordet di Carl Dreyer film-teorema che nel '54 segnò un'introspezione di occulto fascino, drammatizzando in un indelebile bianco e nero alcune controversie di teologia luterana da equipararsi un po'a un racconto d'inverno. Eppure il "miracolo" tanto per stare nel tema, è adesso in buona parte avvenuto: la 46ma Festa del Teatro a San Miniato ha fatto quest'anno leva, suscitando proporzionale curiosità, sull'omonima "leggenda moderna" che il danese Kaj Munk, morto a soli 36 anni, nel '44, per mano della Gestapo, aveva a suo tempo scritto nel 1925, con relativa prima rappresentazione negli anni Trenta.
Pareva inaccostabile, dicevamo, e se non altro di dubbia compatibilità con un nostro palcoscenico, Ordet (La Parola), un. testo squisitamente dibattimentale in materia di attriti di fede che oppongono concezioni liberatorie a postulati invece più ascetici, quelli dei "pietisti", tessendo però all'interno del dualismo una vicenda umana, un consumarsi di logiche comunitàrie dove aleggia il mistero d'un prodigio, dove incombe la presenza d'una creatura taumaturgica, e dove le schermaglie tra scuole di pensiero alludono, quanto a genitori in lizza, alle fazioni dei Montecchi e dei Capuleti.
Pareva improba, un'edizione italiana tale e quale, ma per fortuna ci ha pensato Mario Scaccia, a operare un libero adattamento sfrondando, dinamicizzando, caratterizzando il copione di Munk su cui ora non c'è più a selezionare i dettagli, la cinepresa mobile di Dreyer o, prima di lui, di Molander. Allora è avvenuto che le due fattorie dello Jutland, i poli cioè di due mozioni sociali e religiose in piena antitesi, quella del vecchio e pratico Mikkel Borgen, e quella del probo e inflessibile sarto Peter, qui, nello spettacolo che reca la regia dinamica dello stesso Scaccia, diventano interni di presepi nordici ben conciliati nella Piazza del Duomo di San Miniato. Dentro, ma anche negli immediati paraggi, vi si officia una trama morale, una messinscena talora a stazioni in cui il misticismo è questione di caparbietà, di sfida, e poi magari di catarsi.
Sotto i tetti cuspidali, nel cuore di legni di betulla, o su confinanti speroni di rocce ferve la parabola di Ordet, con la disciplina anche un po' in crisi dei Borgen, il cui patriarcato esercitato dal decano Mikkel trova l'inadeguata corrispondenza del figlio maggiore nonostante sia sposato, costui, con una "fattoressa" ideale, che sta per partorire per la seconda volta; e anche il secondogenito Johannes suscita un'intima apprensione, alienato com'è dopo il trauma per un incidente occorso alla sua ragazza, ormai in famiglia, il vulnerabile dissennato, con l'aspetto e la ieraticità verbale di un Gesù Cristo in pena; anche il più piccolo dei Borgen causa tensione e travaglio allorché è oggetto di rifiuto settario ad opera dei genitori bigotti della giovincella che lui vorrebbe sposare. Tanto i rancori quanto gli interrogativi di Mano Scaccia, prorompente artefice e vittima della saga dei Borgen, persuasivo gigante d'argilla, trovano un ben calibrato contrappeso, illustrativamente nel rigore ortodosso dell'ospitalità di Peter il sarto, e un salmo corale, lì, fa da buon nitido marchio. Mentre i dissidi di dottrina s'interrompono di colpo per il luttuoso parto prematuro della nuora di Mikkel, ecco farsi sempre più incisivo il ruolo di Johannes che infine resusciterà la morta, attuerà il miracolo, compirà l'inaudito: è incisivo, nel lucente nitore senza enfasi con cui Scaccia regista ha plasmato l'attimo fatale, anche proprio l'apporto dell'attore che sull'esempio di Dreyer incarna questo Gesù delirante e strindberghiano, David Gallarello. Citeremmo anche la soave Anna alias Giulietta della situazione, Sonia Aminoli, il cui Anders-Romeo è Antonello Chiocci. Il sarto, padre di lei, era Maggiorino Porta, con moglie mestatoria che era Fiorella Buffa. Altri interpreti erano, chi più chi meno, affetti da maniera recitativa, senza la naturalezza che Ordet suggerirebbe. La scena, con bell'appendice di stanza-torretta dell'agonia, è di Mario Padovan. I costumi sono di Rosalba Stamatopoulos le musiche di Federico Amendola.
RODOLFO DI GIAMMARCO, La Repubblica 22 luglio 1992
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