Nell'Ordet di Scaccia due sette da Far West
In Ordet di Kaj Munk, che l'altra sera è andato in scena in prima nazionale per la stampa, nel prato del Duomo di San Miniato al Tedesco per la quarantaseiesima Festa del Teatro Popolare, c'erano due cose che facevano effetto per la loro essenziale drammaticità. La prima era il complesso di scene creato da Mario Padovan per la «leggenda moderna» che l'autore danese scrisse nel 1925 e che diventò famosa grazie al film omonimo di Dreyer, Leone d'oro a Venezia nel 1955: due spaccati di case, una a destra, una a sinistra di una grande roccia, casa di Mikkel Borgen la prima, casa di Peter il sarto la seconda, e, se vogliamo entrare nel vivo delle cose, centro di «fondamentalisti» quella di Borgen, centro di «pietisti» quella di Peter. A legare la prima zona all'altra, esiste, appunto, la grande roccia, il punto dove i dissidi tra una setta religiosa e l'altra si annullano, il luogo della solitudine mistica, dello spazio toccato dalla Grazia, da dove il pazzo figlio di Borgen, Johannes, grida la sua persuasione di essere Cristo.
L'altra cosa che faceva effetto nel testo di Munk, riletto e profondamente rivisto da Mario Scaccia (regista e protagonista dello spettacolo), era una probabile incapacità, o non volontà, di vestirsi di panni inquietantemente e luteranamente bagnati dal problema del peccato e della grazia, della salvezza e della dannazione, come era successo, per ragioni native, a Dreyer in cui lo scontro fra le due parti assumeva toni cupamente nordici, bergmaniani ante litteram: per cui, nella redazione di Ordet presentata da Scaccia, anche per via di una recitazione spesso priva di finezze psicologiche, c'è sembrato che si scontrassero, più che due sette religiose, due di quelle grandi casate, magari proprio di origine luterana, magari arrivate proprio dalla Scandinavia, che si eliminavano a colpi di citazioni evangeliche e di pistola in certi filmoni che raccontavano la storia del primo Far West nel cinema hollywoodiano degli anni Quaranta e Cinquanta.
Fino allo scioglimento del dramma, fino all'arrivo del giorno del giudizio, quando la morte per parto di Inger, dolcissima nuora del vecchio Borgen, determina il rinsavimento di Johannes e, per la sola forza della sua fede, il miracolo della resurrezione. Che in tanto tumultuare di elementi i due fatti che forse sono stati più a cuore a Kaj Munk e a Carl Theodor Dreyer (la critica del materialismo degli scienziati e dell'intolleranza religiosa presenti nelle figure del medico e del pastore) siano stati affrontati genericamente e un po' rozzamente, dipende forse dal fatto che risuonavano troppo astratti e avevano bisogno di una finezza di dialogo che nell'Ordet sanminiatese, a ben guardare, è la cosa che manca di più.
LUIGI TESTAFERRATA, Il Giornale 18 luglio 1992
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