«De Las Casas» il drammatico duello tra potere e religione
Anche il teatro cattolico, adeguandosi a una tendenza in atto in tutta Europa, attinge negli ultimi tempi alla narrativa con il lodevole intento di portare sulla scena una problematica più articolata e complessa di quella che, in due ore di rappresentazione, può offrirle un copione tradizionale. Crediamo sia questa la ragione della scelta di drammatizzare a San Miniato un romanzo complesso come Las Casas vor Karl V di Reinhold Schneider, uno scrittore vittima del nazismo scomparso nel 1958, affidandone la stesura al poeta Roberto Mussapi. Ne è risultato, prima ancora che uno spettacolo, un testo nobilmente retorico fatto a blocchi squadrati in minacciosa e, a volte, rigida staticità. Dove l'acuto conflitto tra la fede e il potere invece di distendersi in appassionata eloquenza tra le parti in causa, spesso e volentieri si fissa in grandi monologhi che isolano i protagonisti, staccandoli dal drammatico contesto che dovrebbe opporli, senza esclusione di colpi, dalla prima all'ultima battuta. Dato che la diatriba in corso è, niente meno, che la famosa querelle di Valladolid. Quella che, nel 1542, oppose a Gines de Sepulveda difensore del diritto iberico sulle colonie del Nuovo Mondo il religioso Bartolomeo de Las Casas (cui si intitola il dramma) difensore dei diritti degli indios a non essere considerati pura e semplice carne da cannone. Sulla nave che trasporta in patria Bartolomeo, che ha un passato di colonizzatore, trova posto uno sconcertante personaggio. Un cavaliere di nome Bernardino de Lares a cui Schneider affida più che un ruolo di mediatore il compito di testimoniare la brutalità dell'oppressione in alcuni squarci lirici di grande impatto popolare. Che, nello spettacolo firmato da Giovanni Maria Tenti, diventano l'appassionato controcanto alla furia degli elementi visivamente tradotti nella tempesta graficamente impressionante disegnata sul fondale tra soprassalti di raffiche rabbiose. A questo incipit di sicuro effetto contrasta la dimensione urbana del chiostro di San Giorgio dove l'accento aulico del Frate Antonio di Franco Sangermano assume plastica evidenza nei confronti di un Bartolomeo acceso di tutta la terrena personalità che gli regala Franco Graziosi. Un'ottima, sepur esile, scheggia di drammaturgia che visibilmente si ispira al famoso confronto tra la madre superiori e la giovane conversa nei Dialoghi delle carmelitane di Bernanos. Cui ben presto fa da contraltare, aldilà del pezzo d'occasione adombrato nella conversione di Bernardino, l'intero secondo tempo dominato dalla fredda esposizione teoretica delle parti. Dove la resa discontinua di Walter Toschi nel grande ruolo di Sepulveda appanna e distorce l'ampiezza e il valore di una contesa dove sono in gioco, come recita il testo, da una parte l'autorità di uno Stato che si definisce cristiano in base alla corretta esecuzione dei suoi commi e, dall'altra, l'esperienza sul campo dell'uomo di Dio. Il quale, alla fine, trionfa sugli ingegnosi cavilli del legislatore convincendo delle sue tesi lo stesso Carlo V. Anche se l'imperatore, consapevole del divario tra la lettera della legge e la sua applicazione, lo esorta conferendogli il titolo di vescovo degli umili a impegnare nella lotta le estreme risorse della sua vita.
Il valore emblematico del testo è tutto qui, nel grande duetto tra il sovrano e il domenicano che si scontrano senza esclusione di colpi in un duetto verbale di sapore schilleriano anche se di scarso peso scenico. Un duetto che trova nel Carlo V di Renato De Cannine l'interprete ideale per estrema intelligenza dialettica e sorprendente adesione all'inderogabile imperativo del diritto.
Enrico Groppali, Il Giornale, Milano, 13 agosto 2003
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