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La recensione di Vittorio Brunelli
 

San Miniato nell'anno mille
Gli atti sono stati tre: prima una conferenza stampa nella storica biblioteca del Seminario, poi una cena con due pastasciutte nel Refettorio dei frati, quindi la « prima rappresentazione assoluta », nella storica Piazza del Duomo di San Miniato, del dramma di Italo Alighiero Chiusano « Il sacrilegio », ambientato nell'anno Mille. Tutto, in sostanza, trasudava storia. Presentato da Silvano Vallini, leader del consiglio di amministrazione del benemerito
« Istituto del Dramma Popolare », e dal direttore artistico Marco Bongioanni, lo scrittore drammaturgo Chiusano ha spiegato che s'interessava tanto alla storia perché era cristiano, in quanto faceva parte « dell'unica comunità religiosa al mondo che ha della storia una certa visione: quella di una progressiva evoluzione verso un punto finale », che è ahimè, la fine dei tempi, l'apocalisse.
Nato a Breslavia, oggi Wroclav, nel 1926, ha scritto romanzi storici come « L'Ordalia » e « La Derrota », una « storia del teatro tedesco moderno », una « Vita di Goethe », il dramma su San Francesco « Le notti della Verna », cinque radiodrammi, sceneggiati televisivi come « La vita di Don Sturzo » e molti racconti, saggi, poesie. La sua « vocazione numero uno », per sua stessa ammissione, è tuttavia quella del teatro. Ma attenzione: nessun argomento al mondo lo interessa, se non c'è dentro la problematica religiosa. Chiusano lo confessa secondo quello che è, dice, il suo costume: esprimersi con chiarezza. Perciò non gli vanno a genio tutti quegli intellettuali ì quali, al contrario di lui, non parlano papale papale.
Fu studiando l'Alto Medioevo per scrivere « L'Ordalia » — un romanzo centrato sul giudizio di Dio » — che Chiusano s'imbattè nella sconvolgente vicenda dell'Abbazia di Farfa, in Sabina, allora, nel Mille, centro di perdizione. Avvenne così che scrisse « II sacrilegio ». Farfa — dice Chiusano — « è una metafora della società, della chiesa di sempre: con i secoli in cui prevale la Farfa corrotta e i secoli in cui prevale la Farfa santa, ma tenendo conto che una chiesa tutta santa o tutta corrotta non si può dare ». Un motivo questo, secondo lui, eterno e quindi attuale. « Quando io mi occupo di un evento — precisa Chiusano — è perché ci sento una tale rispondenza a quello che succede oggi, che lo scrivo come se fosse storia contemporanea ».
Molto compromettente, dunque: Farfa, pur essendo un'abbazia, un convento, è una specie di bordello, si comincia nella finzione scenica, con monaci ubriachi che circolano con donne discinte. C'è però anche un monaco, di nome Probato, che « si sferza la schiena con una corda nodosa ». Ma non sarà lui, nonostante la sua fede adamantina, a salvare Farfa: ci pensa un altro monaco, Ugo, di ricca famiglia patrizia, al quale l'abate in carica, il malefico Campo offre in vendita il convento per cinquecento pezzi d'oro di conio bizantino. Ugo sta per cedere, ma gli viene in mente, parlando con Probato, d'interrogare il papa, che era, nel Mille, un giovanotto tedesco, Gregorio Quinto.
Succede però l'imprevisto: il Papa nomina Ugo abate di Farfa e incamera più che volentieri i pezzi d'oro al posto di Campo. Questa è simonia, un peccato grave per un pontefice che pure dovrà passare alla storia per aver condannato aspramente la vendita dei benefici e delle cariche ecclesiastiche. Quando la cosa si viene a sapere il monaco Probato, profondamente turbato e deluso, scappa con una ragazza, la bella Inga, che fino a quel momento aveva cercato di sedurlo, ma senza successo.
Ugo resta a far fiorire per decenni l'abbazia insieme con una donna, la vedova Luceria: i due si amano in segreto, morta Luceria torna il monaco Probato, l'ex integralista, il quale nel frattempo, per ragioni misteriose, si era fatto saraceno, e, si suppone, pirata, molto tempo trascorre: l'abate Ugo e Probato (rimasto anch'egli solo) cercano d'intendersi. Dice l'abate: « Seguire la strada di Dio è il massimo dei rischi ». E Chiusano: « Bisogna pagare di persona perché una cosa sconcia diventi una cosa pulita ed esemplare ».
E' la sua morale: è necessario buttarsi e rifuggire dall'integralismo, che può generare il terrorismo. « L'integralista — ammaestra lo scrittore — è un fanatico. Ogni volta che l'uomo si chiude in un'idea che non ammette dialogo, se non riesce ad arrivare a risultati angelici va a buttarsi in opposti risultati diabolici: il male, la disperazione, la violenza».
La platea ha ritenuto eccellenti la regia di Gian Filippo Belardo e la controllata recitazione di Carlo Simoni (Ugo), Mita Medici (Inga), Giorgio Favretto (Probato), Gianfranco Ombruen (Papa Gregorio Quinto), Marina Landò (Luceria) e Vittorio Sanipoli (Campo). Le belle scene e i ruvidi costumi portano la firma di Salvatore Venditelli; le musiche sono di Peppino Gagliardi. Il dramma si replica ogni sera, fino al 21 luglio, nella mirabile Piazza  del  Duomo   della storica San Miniato.
Vittorio Brunellli Corriere della Sera, Milano, 17 Luglio 1982




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