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Le seduzioni dell'antinulla
 

LE SEDUZIONI DELL’ANTINULLA.

IL TEATRO DI ELENA BONO

  In quasi cinquant’anni di operosità, che l’ha vista cimentarsi in diversi generi: poesia, narrativa, teatro, saggistica e traduzione di tragedie greche, la Bono, nata a a Sonnino nel Lazio nel 1921, ma sin da giovane residente in Liguria, è rimasta fedele ad alcuni temi. In effetti le sue pagine hanno quale filo conduttore la critica al potere, elemento nullificante del singolo; il sarcasmo verso la “eterna, rancida, rognosa politica” degli uomini; il conflitto fra imperativi morali e scelte dettate da necessità contingenti; il confronto con la Storia, luogo in cui siamo chiamati a batterci per cambiare il mondo; la denuncia dell’assurdità della guerra; il senso di pietà che unisce sconfitti e vincitori; la sacralità della sofferenza quotidiana; il biasimo per quanti non fanno tesoro del sacrificio degli altri; l’esaltazione della libertà; e infine il rispetto della dignità dell’uomo. Sebbene tutti, umili e grandi, patiscano le ferite della storia, i dolori di quanti vivono appartati sono “lievito trasformatore”, “possibilità e speranza di modificazione” della società. Le premesse di un domani più giusto sono poste da coloro che operano, nonostante tutto. Emblematico è a tale proposito il botta e risposta fra Catullo e Cesare in Cuore senza fine:

“CATULLO    Ma non c’è niente … niente da fare … vero, Cesare?

CESARE       Sopportare con coraggio. E agire. Agire fin all’estremo limite di quel che è consentito e un po’ più in là, Catullo. Tu hai la poesia. Io lo Stato. E qualunque cosa … dal falegname che fa una sedia, a chi scrive un verso o una legge, farla per i secoli. Farla come se ne dipendesse il destino del mondo”.

 

   A quanto scrivevo nel ’95, la definizione che le è stata attribuita di scrittrice appiattita sui principi della Chiesa di Roma è fuorviante, o quantomeno limitativa, per la corretta comprensione di testi come i suoi, così ricchi di sfaccettature e innervati da valori civili e religiosi.

Credo che il nucleo portante di tutta l’ispirazione di Elena Bono vada individuato, come aveva intuito Dario G. Martini in un saggio dedicatole nei primi anni ’50 del secolo scorso in una ostinata e puntigliosa polemica contro il nulla. La Bono è intimamente cattolica, anche se il suo cattolicesimo ha evidenziato col tempo qualche venatura forte di giansenismo: il suo cristianesimo ama certo la croce, ma non disdegna, quando sia necessaria, la spada. E tuttavia credo che, come alcuni laici, essa sia giunta a riconoscere che il  nulla può essere vinto anche da  chi non crede in Dio ma nell’umanità. Anche se ognuno di noi fosse destinato a dissolversi dopo la morte non per questo sarebbe condannata l’umanità. Appare quindi sempre più incomprensibile la pervicacia con la quale i profeti della catastrofe vogliono uccidere il bene più prezioso che oggi i suoi testi ci trasmettono va appunto contro il nichilismo dell’arte e del pensiero, responsabile per tanta parte della disperazione di questa epoca segnata da sconvolgimenti politici, sociali e ideologici. “Il suo cristianesimo, inizialmente percorso da accenti di un francescanesimo non edulcorato e progressivamente sempre più sostanziato di cose che di parole, si esplicita in componimenti” che invitano con fermezza alla “resistenza contro la distruzione dell’uomo”. Anche con  piccoli gesti è infatti possibile combattere il Male, che nei suoi testi si identifica sempre più con la ragion di stato. Di qui quella “ossessione del potere” da cui sono nati i personaggi storici, da Catullo a Cesare, da Erode a Federico II e papa Innocenzo IV, dal precettore dei Templari a Giovanna d’Arco, da Carlo V ad Andrea e a Gian Andrea Doria, dallo zar Paolo I a Garibaldi, che popolano i suoi lavori destinati alle scene. La Bono sa cogliere questi personaggi “ sul discrimine tra il Nulla e l’Eternità” nel momento in cui “si aprono ad una rivisitazione di sé e del proprio vissuto, in tutto il loro splendore e la loro miseria” Nella sua corposa produzione, costituita da quattordici testi scritti fra il ’51 e il ’97, la Bono fa rivivere gli eventi storici nella prospettiva di un’educazione alla coscienza. Si vogliono cioè capire le cause che hanno inciso sulla storia, senza tralasciare però l’approfondimento della psicologia dei personaggi. Esemplare in questo senso è il monologo di Andrea Doria in Ritratto di principe con gatto, una delle sue pièces più belle per la sobrietà della costruzione e la limpidezza del  linguaggio. Davanti all’eternità, l’uomo più potente della Genova della prima metà del Cinquecento fa un bilancio disincantato della propria esistenza, prendendo coscienza di avere desiderato il bene, ma di avere anche compiuto il male. Tale consapevolezza fa sì che il congedo dalla vita gli sia meno doloroso. Del resto per stare meglio – lo afferma Giobatta, il capo del villaggio devastato dai Saraceni in Le spade e le ferite – “basta un peu de carité” e tanta solidarietà nei confronti di tutti..  Lo stesso personaggio poco oltre aggiunge con tono paterno ma fermo:

“A peggio cossa è fa’ dô mâ. […] A ‘sto mondo, figgê, gh’è poco da sta’ allegri: terremoti, balzelli, e peste e fame e cavallette. E gh’è pure a guerra, no capìmo perché. Forse manco o capisce chi a scadena. Ma de tutto, pazienza. Diè ne compensiaà”.

 

   L’originale e anomala scrittura teatrale della Bono si caratterizza, come hanno rilevato due studiosi intelligenti, Elio Andriuoli e Graziella Corsinovi, nella “lucidità di un pensiero sempre pronto a cogliere i problemi politici e sociali, anche meno noti, dell’epoca in cui il dramma viene ambientato”, e nel recupero di “personaggi e sfondi storici rigorosamente documentati” e nell’intensità dei messaggi affidati “ai nudi momenti di verità dell’anima, spalancata sull’abisso dell’oltre”. La Bono sa rendere tutte le sfumature del cuore umano. Insomma i suoi personaggi, piccoli e grandi, sono vivi sulle scene. Di grande efficacia risulta pure il singolare impasto linguistico, caratterizzato dalla sapiente commistione di italiano, francese, provenzale, tedesco, spagnolo, dalla contaminazione di vari dialetti, dal genovese al siciliano, dall’utilizzo funzionale di neologismi e dall’alternanza di registri alti e bassi, arcaici e moderni. Le battute dei personaggi, in equilibrio fra aulico e familiare, sgorgano naturalmente, rendendo la parola ferma e incisiva, in grado di rendere tutte le sfaccettature dell’anima umana. Anche per questo arriva in maniera diretta al pubblico, come hanno dimostrato bene le quattro regie firmate, fra il ’94 e il ’97, da Daniela Ardini, e quelle di Ugo Gregoretti e  Pino Manzari  de Le spade e le ferite e I templari, nell’estate del 2000 e del 2002, alla Festa del teatro a San Miniato,  e prima ancora l’allestimento in Francia nell’aprile 1999 de La grande e la piccola morte col titolo Jeanne ou la mort volée,  per la regia di Sophie Elert.

   Fin dall’esordio la Bono ha avuto ben presente la questione della lingua, nodale a teatro. In effetti già nei primi anni ’80 aveva riconosciuto che il problema non era astratto ma “un fatto istituzionale […], grazie al quale i singoli personaggi” gli si rivelavano “attraverso stilemi connotativi propri, non interscambiabili”. Nell’86 precisava:

  “ Penso che lo scrivere sia una forma di visitazione, una dettatura. […] Meno v’è dello scrittore nella pagina e meglio è. Perché se lo scrittore ascolta, trascrive ciò che vede, ecco, queste sono visioni; è un altro discorso che ci interessa e che diventa un fatto universale”.

 

Parlando nel 1999 ai miei allievi di Flamenco matto. Cena a metà quaresima in casa di don Giovanni Tenorio, una sorta di auto sacramental, articolato   in tre  tempi di robusta teatralità, in cui era proposta la versione di  Don Giovanni redento, che trova il precedente nel Don Giovanni Tenorio composto da Zorrilla nel 1844,  così illustrava il suo personale input creativo:

  “I miei personaggi mi si presentano spontaneamente. In una prima fase mi limito a osservarli e ad ascoltarli, trascrivendo come meglio mi riesce le loro parole. In un secondo tempo però il mio compito si fa più arduo in quanto devo restituire accanto alle battute realmente pronunciate, la tonalità e il timbro inconfondibile delle loro voci, l’abbigliamento con cui mi si sono presentati, i movimenti e i gesti compiuti, i colori visti e i suoni uditi”.

 

   .Si tratta di un procedimento che, per sua esplicita affermazione, richiede per un verso l’identificazione e per l’altro il distacco dalle sue creazioni.

   A quanto annotava una mia allieva, Patrizia Pitto, nella sua tesi di laurea, la scrittrice ha rivelato una straordinaria capacità di rinnovarsi:

  “Dalle prime prove giovanili sino al recente, bellissimo Flamenco matto, sembra che Elena Bono non abbia fatto altro che rimettere ogni volta in discussione se stessa e il suo lavoro rifuggendo da facili affermazioni commerciali e senza cristallizzarsi sui risultati (peraltro notevoli) ottenuti.

   Naturalmente la nostra autrice ha scontato un impegno e una coerenza di tal genere nell’indifferenza dell’ambiente letterario (le sue opere, pubblicate da un piccolo e coraggioso editore ligure hanno una circolazione assai limitata) e con la latitanza del mondo teatrale, evidentemente legato più a ragioni di mercato che non attento alla vera cultura”.

 

Subito dopo la Pitto aggiungeva:

 

“Recensendo Ritratto di principe con gatto, il già ricordato Dario G. Martini si convinceva ancora di più di quanto sia falsa la dichiarazione che non esistono autori italiani viventi degni di veder rappresentati i loro testi. Di recente, proponendo il suo nome in un’antologia della letteratura italiana, Elio Gioanola ha parlato di atto dovuto”.

 

nei confronti di un’artista difficile e controcorrente, apprezzata e tradotta all’estero negli anni ’50-’60.

   Negli ultimi tempi però i già ricordati allestimenti francesi de La grande e la piccola morte e alla Festa del Teatro di San Miniato de Le spade e le ferite, hanno favorito una ripresa di interesse per una scrittrice complessa e sfuggente che al debutto aveva suscitato per un verso l’interesse del critico Emilio Cecchi e dell’editore Garzanti, e per l’altro l’attenzione del regista Orazio Costa Giovangigli e di due interpreti della levatura di Emma Grammatica e di Gualtiero Tumiati. Autrice mai ripetitiva, capace di una straordinaria evoluzione di contenuti e linguaggi, la Bono parla al pubblico con semplicità, comunicando la speranza che l’uomo possa finalmente raggiungere e una nuova e più equilibrata dimensione. La sensibilità poi con la quale sa cogliere i dubbi e gli interrogativi dell’uomo di tutti i tempi fa sì che essa sappia reinterpretare con sensibilità moderna drammi della passione sotterranea che alla fine affiorano con grande forza, e altri dell’intrigo politico condotto lucidamente e dai quali emerge la tragica doppiezza della natura umana.

   In ogni caso la Bono, di fronte alla crisi dei valori che ha travolto l’umanità ad un certo punto della storia, che persiste tuttora, afferma la propria fede in Dio, considerato da lei un punto di riferimento importante, dal quale muoversi per ritrovare noi stessi e per  ricostruire (parafrasando una riflessione di  Kaltenbrunner, soldato tedesco protagonista del romanzo Come un fiume, come un sogno) “l’uomo dentro di sé”, rifiutando di continuare come se nulla fosse accaduto:

   In un saggio  recente in cui mi occupavo del già ricordato Flamenco matto notavo la capacità della Bono di delineare “nei suoi lavori personaggi vivi che criticano con asprezza il potere, che tende ad annullare il singolo, e nel contempo  si oppongono con fermezza al nulla, proponendo una  forma di resistenza al dissolvimento dell’uomo nella certezza che  qualcosa  gli sopravviverà oltre la morte”. Nella  sua  produzione teatrale la commediografa, in virtù di una scrittura personale, “fa rivivere con efficacia gli eventi e i personaggi  volta a volta trattati nella prospettiva di un’educazione alla coscienza, nell’intento riuscito di aiutare il lettore  a capire le cause che hanno inciso sulla piccola e sulla grande storia. I testi della Bono  evitano le secche dell’ ideologismo per la forte passione civile da cui sono sostanziati e innervati. Per questi motivi le sue pièces, sostenute da un grande rigore artigianale,  dal pieno dominio della materia e da un talento indubbio,  mi ha segnato profondamente. L’immagine vivida che ho di lei, supportata oltre che dai suoi testi dalle conversazioni telefoniche e dalle sue lettere, è quella di una donna all’apparenza fragile, ma in realtà determinata a difendere i valori della persona umana”.

 

 




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