Indagine su un miracolo. Il Capanno di Greene a S. Miniato
Dopo un periodo, pur discontinuo, di scelte coraggiose e originali, che sembravano aver indirizzato l'Istituto del dramma popolare su una via di maggiore apertura (Il processo di Shamgorod del Nobel ebreo Elie Wiesel), di superiore prestigio (Giobbe di Papa Wojtyla), di alto confronto ideologico (Fiorenza di Thomas Mann), la cittadella cattolica del teatro sembra denunciare nuovi sintomi di smarrimento e di crisi, di ripensamento e di fideismo retro.
Mettere in scena per la quarantunesima festa del teatro Il capanno degli attrezzi di Graham Greene — anzi rimettere, il dramma è stato già rappresentato nel 1958 a Milano, Teatro del Convegno, e ripreso anche in Tv: ma che non si tratti di una novità ha poco importanza — è spia di due ordini, almeno, di malessere che percorrono l'istituzione. In primo luogo l'oggettiva difficoltà a reperire testi inediti o mai rappresentati, come sancisce lo statuto, in un momento che pure sembra restituire spazio e fiducia alla giovane drammaturgia, i cui temi, però, non contemplano problematiche di trascendente spiritualità, guardando piuttosto alla condizione umana nella drammaticità del quotidiano. Se la presenza di Dio si avverte in tali opere non è certo nella rivelazione, nel misticismo, ma piuttosto nell'osservazione degli atti più minuti — ma più realisticamente significativi che l'uomo compie ogni giorno.
Da oneste difficoltà consegue il dubbio sul che fare: tentare la via più ardita della ricerca di valori spirituali che ormai si nascondono in una visione laica minimale del mondo, rischiando critiche o anatemi dalle frange cattoliche più intransigenti, oppure, in attesa di un nuovo Eliot, o Bernanos, o Claudel, o Fabbri, scivolare nella oleografia gialla del miracolismo del Capanno degli attrezzi.
Il dramma di Greene, condotto secondo la consumata abilità tecnica dell'indagine analitico-poliziesca, agita l'antico conflitto fra fede e razionalità che, ormai, è soprattutto patrimonio di ponderate discussioni fra specialisti, teologi e scienziati, più che argomento per una pièce teatrale. Dramma vagamente, ma non tanto, autobiografico (l'autore tentò il suicidio come il protagonista James), è pervaso, come del resto le opere migliori di Greene, i romanzi, dall'accesa passionalità del protestante convertito al cattolicesimo. James Callifer, quattordicenne, ossessionato dall'ateismo paterno (amico di Wells, Russell, razionalisti e fabiani) che non promette un aldilà, s'impicca nel capanno degli attrezzi; sembra morto, ma viene, diciamo, resuscitato dallo zio prete che, Faust atipico, si saprà alla fine, ha respinto la propria fede a Dio pur di vedere vivo il nipote. James, che ha perduto la memoria del tragico gesto, intraprenderà una lunga indagine per conoscere la verità e uscire da uno stato di profonda frustrazione spirituale che ne ha fatto un fallito. Alla scoperta della verità si oppongono per trent'anni moglie, altro figlio e amici del vecchio miscredente, a sua volta tenuto all'oscuro del miracolo avvenuto nel capanno degli attrezzi, che avrebbe potuto sconvolgere la sua mente. Ma il vecchio muore e la verità lentamente andrà ricomponendosi. Testo che una trentina di anni fa, grazie alla sedicente struttura narrativa poteva suscitare emozioni e consistenti motivi di dibattito, oggi ci lascia moderatamente indifferenti, anche di fronte alla figura più scandalosa — non ultima della serie di deboli e peccatori che popolano le pagine di Greene, dal don Jose del Potere e la gloria al Charley Fortnum di Console onorario — del padre Callifer, prete senza fede, ubriacone, sacrilego, attraverso il quale si manifesta la grazia divina. Svanita o quasi la carica eversiva del prete indegno, vittima della sua generosità, del Capanno degli attrezzi resta la costruzione teatrale, ancora valida, e una dose non indifferente di humor che potrebbe essere il prezioso contrappunto al clima di sospetto e di mistero che innerva il dramma. Certo Sandro Bolchi, che aveva già realizzato Il capanno per la Tv, tornando al teatro dopo dodici anni di assenza si è mosso secondo i canoni interpretativi propri delle produzioni Rai: ha curato il ritmo e l'effettualità delle battute, in particolare del primo atto, promettente preparazione al prosieguo dell'azione. Ma lo spleen recitativo, non ci è sembrato sostenuto da un necessario scavo psicologico dei personaggi — sebbene Greene si sforzi di farne un'analisi generale —, con l'eccezione del solo Mario Maranzana che ha strappato brandelli di intensa drammaticità alla figura di padre Callifer.
Bolchi, insomma, si è preoccupato più della confezione del dramma che al suo contenuto, a ciò che il testo avrebbe potuto suggerire. Per esempio non ha condotto alle estreme conseguenze registiche l'idea eccellente di collocare l'azione nel giardino, anziché in un interno di casa Callifer. Il giardino poteva diventare un luogo mentale anche per le scene della camera d'affitto di James e della sacrestia di padre Callifer, per le quali, invece, si è ricorso a posticci banali bric à brac.
Gli attori si sono comportati con assoluta professionalità nell'ambito di un impianto registico convenzionale, patinato. Carlo Simoni è stato un James triste e tormentato; Regina Bianchi, la ferrea vedova Callifer; Margherita Guzzinati, la dolce, smarrita Sara, moglie divorziata di James; Giorgio Bonora, l'energetico Baston; Rina Franchetti, la trepida signora Potter; poi gli altri. Di Mario Maranzana, simpatico trasgressore di schemi, abbiamo già detto.
PAOLO LUCCHESINI, La Nazione 19 luglio 1987
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