Sul ponte sventola la bandiera di Melville
Il teatro ha anche questo di bello: che ti porta, quasi ti costringe a riprendere in mano libri non dico dimenticati, ma trascurati da tempo. Per esempio, dovendo andare a vedere uno spettacolo tratto da Billy Budd, ho messo nella valigia l'edizione meno ingombrante che ho trovato nella mia libreria: un volumetto stampato da Bompiani negli ultimi anni di guerra con la bellissima, deliziosamente invecchiata traduzione di Eugenio Montale. E nella traduzione di Montale che, da ragazzo, ho letto per la prima volta questo estremo, supremo capolavoro dell'autore di Moby Dick; poi, come succede, l'avevo lasciata per altre, più moderne e forse più esatte; e non so dire con quanta emozione e con quanto piacere, adesso, ne ho ritrovato la forbitezza un po' démodé, la patina elegantemente solariana e, di tanto in tanto, l'inconfondibile classe di certe soluzioni lessicali. Senza contare la breve, acutissima nota introduttiva: «Il testamento poetico di Melville può essere tutto insieme epopea e racconto di avventura, dialogo platonico, saggio critico intinto di spiriti rivoluzionari e dramma: dramma sacro che rappresenta il sacrificio per eccellenza, il sacrificio cristiano cella Croce... Un grande argomento in mano di un forte poeta che in esso riassume e incentra tutti i fantasmi, tutti gli idoli e i segreti di un'intera vita ...». Non si finirebbe più di citare. Ma devo, è vero, parlare dello spettacolo, che ho poi visto — non a San Miniato, dove è andato in scena la prima volta, ma a Borgio Verezzi, nell'ambito di un festival ricco come ogni anno di proposte interessanti — e che mi è parso un buono spettacolo, nobilitato a prima vista da una presenza figurativa di grande impatto: una nave (l'«Indomita», la fregata di Sua Maestà Britannica a bordo della quale il racconto, ambientato nell'anno di grazia 1797, si svolge per intero) sintetizzata da Pietro Cascella in un monumento bianchissimo, spettrale, con le sue vele e i suoi cannoni immobilizzati di profilo, si direbbe, da un solenne e sinistro incantesimo. Ma come si fa a rendere «visibile» e, soprattutto, tradurre in una successione coerente di fatti e in un ragionevole susseguirsi di battute, una storia così grandiosamente implicita, una parabola che, come dice ancora Montale, «non riesce a chiarire a se stessa il suo mistero»? Melville riscrive la Bibbia complicandola e oscurandola; Enrico Grappali, autore della riduzione, è stato costretto a riscrivere Melville semplificandolo e spiegandolo, e per apprezzare come certamente meritano i suoi sforzi normalizzanti bisogna mettere fra parentesi l'enigmatica grandezza dell'originale.
Un po' del mistero che nel transito dal testo al copione è andato inevitabilmente perduto ha tentato di recuperarlo, in parte riuscendoci, il regista Sandro Sequi con una serie di sospensioni, di sottotoni e sottoritmi, di intercapedini di silenzio insinuate fra gesto e gesto e fra parola e parola, ben assecondato in tale intento da un gruppo di interpreti valorosi e anche fisicamente adeguati. Il giovane Massimiliano Nisi è assai credibile nella parte di Billy, il «Bel Marinaio», il «barbaro» innocente sacrificato prima dalla «depravazione naturale» del maestro d'armi Claggart, che l'accusa ingiustamente di sobillare i compagni all'ammutinamento; e poi — quando la vittima reagisce uccidendo il suo calunniatore — dalla Legge solennemente e astrattamente omicida impersonata suo malgrado dall'onesto capitano Vere. Due ruoli non certo facili, quelli di Claggart e di Vere, per la drammatica e insondabile contraddittorietà di cui sono intrisi, ma impersonati con molta sicurezza, nell'ordine, da un Corrado Pani corposamente ambigua e da un Massimo Foschi ieraticamente tormentato: e bravi, fra gli altri membri dell'equipaggio, mi sono parsi anche Maurizio Gueli e Giancarlo Condè. Per finire, una domanda: perché non utilizzare almeno la parte più tecnicamente poetica della traduzione montaliana, la ballata finale di «Billy in catene»? Ci sono versi da brivido, dentro; e avrebbero suggellato lo spettacolo assai più degnamente della melodia un po' melensa intonata per l'occasione dal fantasma dell'impiccato.
GIOVANNI RABONI, Il Corriere dell Sera, 8 agosto 1997
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