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La Nazione - La recensione di Paolo Lucchesini
 

Viaggio fra speranza e tormento
«La mia ultima volontà. Il mio corpo morto non deve subire autopsia; né essere esposto; fuorché per i parenti più stretti. Nessuna maschera mortuaria, nessuna fotografia... Niente sepoltura in cappella mortuaria, tanto meno in chiesa. Voglio essere sepolto nel nuovo cimitero, ma non nel settore dei ricchi, alla fiera delle vanità...». Sono le ultime volontà di August Strindberg, 23 marzo 1911. Più tardi scrisse: «Il solo monumento che chiedo è una croce in legno nero e la mia storia». Morì il 14 maggio 1912, pochi mesi dopo aver ricevuto uno strano riconoscimento, una sorta di anti-Nobel, cinquantamila corone, frutto di una sottoscrizione promossa da studenti e operai.
Poche righe testamentarie racchiudono il travaglio estremo, interiore che serpeggia — a volte arroventato da una febbre fideistica, irruente poesia, a volte cupo, oscuro, perifrastico, affidato a simbolismi, forse non del tutto risolto — nella Grande strada maestra, ultima opera compiuta di Strindberg, scritta e rappresentata nel 1909 all'Intima Teater e in diversi teatri europei, ma apparsa in Italia per la prima volta alla quarantaquattresima Festa del teatro di San Miniato. Testo, come abbiamo appena accennato, affascinante e disuguale che, onestamente, sia pure fra bagliori e vortici abissali, doveva in qualche modo essere portato in palcoscenico per verificarne la teatralità, ma soprattutto per offrire l'occasione di conoscere, al di là della pagina scritta, uno Strindberg praticamente sconosciuto, quello degli Stationendrama, azioni
drammatiche che si dipanano lungo un percorso a tappe, un calvario, una Via Crucis, annunciate da Verso Damasco, altra opera raramente considerata da noi. In realtà, La grande strada maestra non trova alcun riscontro o rapporto, se non in alcuni passaggi, con il teatro di Strindberg regolarmente rappresentato e circuitato in Italia: in primo luogo La signorina Giulia, e poi Temporale, Il padre, Il pellicano, più raramente Delitto e delitto, Danza di morte e Sonata di fantasmi. L'ultima opera di Strindberg si allontana, e non poco, dal nero verismo psicologico dei testi più conosciuti, raccogliendo i pensieri più riposti dell'autore ormai vecchio, rendiconto di un'esistenza tormentata professionalmente e sentimentalmente. Ma Strindberg nella Grande strada maestra ha anche riversato opere di autori amati. Si avvertono tracce precise della Divina commedia, all'inizio quando l'Eremita ricorda al Cacciatore, il protagonista in cui si rispecchia Strindberg, che ha «vissuto solo la metà della sua vita» e all'epilogo che si svolge in una «selva oscura». Del Peer Gynt ibseniano si colgono i personaggi simbolici, assurdi, strampalati delle stazioni centrali. E fondamentale la presenza di Goethe con l'apparizione finale di un Tentatore che sarà sconfitto come in Faust. Testo ricco di citazioni e di pulsioni, ma, ripetiamo, talora dispersivo, contraddittorio da un lato raffreddato da un epicismo singolare, dall'altro gravato da sfilacciature retoriche e, conseguentemente, non facile da tradurre in spettacolo. Il viaggio verso la speranza del Cacciatore/Strindberg, infatti, paradossalmente sviluppa una forza evocativa superiore con i brani monologici, vedi le lunghe tirate del protagonista e gli interventi del Giapponese suicida, mentre langue, nonostante la buona volontà di regista e attori, proprio quando si accenna al dialogo e all'azione. Ciò nonostante siamo di fronte a uno spettacolo dignitoso e apprezzabile per l'impegno che, forse, meritava un maggior tasso di fantasia o, addirittura, di follia tanto più necessario di fronte a un'opera che sembra precorrere i metodi del teatro dell'assurdo. La regia di Mario Morini è ordinata, rispettosa, sfrutta bene lo spazio, offre immagini kantoriane quando gli attori si raggruppano. Scena di Stefano Pace, costumi di Annamaria Heinreich. Massimo Foschi è un convicente Cacciatore, corposo e lucido, ottimo nei monologhi. Bene Carlo Simoni nel ruolo del Viandante, e Milena Vukotic che si prodiga in varie parti; particolarmente riuscito per intensità l'intervento di Mico Cundari come Giapponese; coppia brillante Stefano Gagnarli e Gianluca Condé, e inoltre Eliana Lupo, Gianluca Farnese, Antonio Cascio e la piccola Elettra Farnese. Applausi, anche a scena aperta.
PAOLO LUCCHESINI, La Nazione, 21 luglio 1990




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