Julien Green, che all'età di novantacinque anni continua a scrivere "come si respira", ha da poco terminato un dramma, L'Etudiant roux, ancora non pubblicato né rappresentato, che è la versione teatrale di Moira, uno dei suoi romanzi più noti, terminato nel 1950, un quarto di secolo dopo Mont-Cinère, che l'aveva rivelato come narratore cattolico di irrequiete, notturne investigazioni. Storia americana, come Mont-Cinère, di un giovane, uno studente, diviso fra l'ossessione della purezza e le tentazioni della carne, che uccide la giovane donna cui ha ceduto, Moira è andata così ad aggiungersi - in questa trasposizione teatrale - alla non folta ma incisiva e coerente teatrografia dello scrittore, più noto come romanziere e come autore di uno sterminato Journal che, cominciato nel '38, rappresenta lo sguardo più lungo che un intellettuale abbia gettato sul secolo.
Green era venuto al teatro relativamente tardi, nel '53, sollecitato da Jouvet fra gli altri, in quel clima del "teatro delle idee" che portava sulle scene parigine i testi di Camus, di Sartre, di Marcel e nel quale la drammaturgia cattolica, prima dell'onda lunga del "teatro assurdo" che avrebbe tutto sconvolto, conservava solide posizioni, con Mauriac e Claudel, con Bernanos e Maulnier. Sud, la sua prima pièce, era incentrata sulla solitudine di un uomo che, sospinto verso un'amicizia particolare dalla propria diversità sessuale, approdava al suicidio: interrogazione sul mistero scandaloso del male, rappresentazione di un'angoscia metafisica ai confini della nevrosi, benché aliena da scandagli psicanalitici, teatralizzava efficacemente la problematica romanzesca di Green ed era stata accolta con interesse. Green, del resto, restava in Francia, ormai sua seconda patria, l'autore dell'infiammato Pamphlet contre les catholiques, il convertito al cattolicesimo che negli anni Trenta aveva chiesto conto alla Chiesa dei suoi comportamenti temporali e, soprattutto, l'intellettuale al centro di una polemica sull'engagement per avere, nel suo Journal, riproposto contro la massificazione dell'arte e della cultura i diritti della persona. Incoraggiato dal successo Green scrive immediatamente dopo, 1954, L'ennemi, provandosi stavolta nella pièce costumée: una Francia settecentesca alle soglie della Rivoluzione francese, colta come il rumore di fondo di una tenebrosa vicenda di amori, di tradimenti e di morte in un aristocratico castello dell'Ile-de-France. Seguirà L'Ombre, pubblicata e rappresentata due anni dopo, appartenente al periodo di Green detto surnaturaliste, come i quasi contemporanei romanzi Le Malfaiteur e Chaque homme dans sa nuit, popolati di personaggi che in un brutto sogno, la vita, e in un brutto posto, il mondo, si dibattono in un inferno sconosciuto, in attesa della liberazione della morte.
Dopo queste tre prove l'uomo di teatro, in Green, tace, per lasciare il posto al narratore e al memorialista; soltanto nel 1980, un quarto di secolo dopo, riprende e termina Demain n'existe pas, una commedia che aveva cominciato in Italia, a Taormina, nell'estate del '50 e che destinava a Jouvet, ma che aveva abbandonato per Sud: una cupa, spietata tranche de vie ambientata a Messina nelle ore precedenti il terremoto apocalittico del dicembre 1908, la cecità degli uomini davanti ai segni premonitori del destino, la fuga di una coppia adultera su una carrozza condotta da un cocchiere che è la Morte, la stessa atmosfera stregata di un classico del genere, Il ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder. Nel presentarla in questa stessa collana di Ricordi Prosa, prima che Sandro Sequi la portasse sui palcoscenici italiani, Carlo Bo scriveva di un "teatro dell'altrove", senza confini fra il reale e l'irreale; "un teatro misterioso, disordinato, che ignora il suo autore e il suo regista, dunque il Dio ignoto e insondabile la cui voce sì manifesta, con maestà terribile, soltanto nell'ora della prova, della disgrazia, della punizione".
E poiché la versione e l'allestimento italiani di Non c'è domani hanno aperto anche da noi la verifica della portata e della resistenza nel tempo del teatro di Julien Green (proprio mentre si è saputo che lo scrittore e il figlio di adozione hanno deciso di abbandonare la Francia per stabilirsi definitivamente nell'amata Italia; e in attesa di conoscere e valutare, oltre alla elaborazione scenica di Moira, un'altra pièce degli anni Ottanta mai rappresentata, L'Automate, suggeritagli dagli avvenimenti del '68), cade opportuna la traduzione di Roberto Buffagni di L'ennemi, che qui proponiamo, e che è già promessa ad un allestimento nel nostro paese. Colpisce subito, a una prima lettura, l'uso che Green fa del quadro storico nel quale si muovono, fra le vertigini dei sensi e gli slanci verso l'amore incontaminato, fra gli abbandoni del cuore e i freddi calcoli di spietate vendette, fra la luce di stati di grazia e il buio di calate negli abissi del male, i quattro personaggi della vicenda. Essi sono prigionieri di drammi personali che li consumano. L'aristocratico Philippe, Signore di Silleranges, che una ferita di guerra ha reso impotente, vive con malcelato dolore l'umiliante condizione di marito e sospetta che il fratello Jacques l'abbia soppiantato nel cuore della giovane moglie Elisabeth; questa è combattuta fra il dovere della fedeltà allo sposo e l'ardore dei sensi che l'hanno spinta, ciecamente, nelle braccia del cognato; Jacques nella passione per la donna cerca un vano antidoto al rimorso e si trova esposto ai morsi della gelosia quando il fratellastro Pierre (che si era fatto monaco dopo una giovinezza orgogliosa e dissoluta, credendo di avere incontrato la fede, ma ha ceduto alle tentazioni della carne, si è consegnato al nemico e ha abbandonato il convento) palesa e mette a segno il disegno di fare sua Elisabeth. E dunque, su queste condizioni di partenza dei quattro tormentati personaggi, una drammatica partita a mosca cieca che si gioca nelle fredde giornate e nelle oscure notti dell'inverno del 1785 al castello di Silleranges: e la data dà corpo ai fantasmi di un agitato periodo che prepara il Grand Soir della Rivoluzione. Nei monasteri c'è la crisi delle vocazioni, i nobili vivono come assediati nei loro domini, torme di affamati si aggirano nelle campagne, si reclutano sicari fra gli evasi dalle prigioni. Il huis clos dei Silleranges è lo specchio dei tempi, il privato e il pubblico s'intrecciano in un groviglio di minacciose, incombenti premonizioni, la Storia inghiotte le storie.
Non diversamente Bernanos aveva fatto sentire gli urli e i furori del periodo del Terrore che trapassavano le mura del convento dei suoi Dialogues des carmelites, dove sedici suore si preparavano a salire alla ghigliottina. Ma il tempo della violenza era percorso in Bernanos da bagliori accecanti, quello di Green è come avvolto dal chiarore lunare di una storia gotica, e tiene in vita i relitti di una società aristocratica, le sue usanze, i suoi codici, la sua lingua. Si pensa piuttosto, davanti al marivaudage nero che regola il gioco delle maschere dei Silleranges, al clima perfido, crudele che incombe nelle Liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos: il quale dopo tutto volle scrivere un romanzo morale, pubblicato - se vogliamo tener d'occhio le date - nel 1782. L'alleanza satanica che si stabilisce tra Valmont e la marchesa di Merteuìl, che trasforma in emulazione libertina lo stato di guerra dei sessi e che trascina alla rovina la Presidentessa, donna virtuosa, naturale e sensibile, è la rappresentazione di un'aristocrazia consunta dalla corruzione secondo la nuova società del secolo dei Lumi. L'ennemi intrama altri legami pericolosi, ma per mettere al centro il Male metafisico, la differenza è essenziale: Laclos scrive il romanzo di una presa di coscienza con gli strumenti di un realismo razionale, Green richiama un quadro storico di crisi fin Dix-huitième per riproporre l'eterna disputa cattolica del mistero del male. "È necessario aprire una porta per fare entrare il demonio?", chiede scettico e provocatorio Jacques al fratellastro Pierre quando questi, per sfidarlo davanti alla posta di Elisabeth, s'arroga il potere di fare entrare il Principe delle Tenebre, cui si è dichiarato asservito, nella stanza dove conversano. E Pierre: "È necessario aprire una porta e varcare la soglia di una chiesa per trovare Dio?". Non una parola in più, ma la disputa - secondo Green - ha raggiunto il suo stadio ultimo: quello in cui il sospetto, neppure l'angoscia, dà corpo al Male, lo fa esistere in rapporto simmetrico con il Bene. Anche Pierre e Elisabeth, nella scena della seduzione che conclude il primo atto (e nella quale Green sembra avere avuto davanti quella che, in Shakespeare, vede Riccardo III intento a piegare l'odio della regina), quando cercano di dare un nome alla tempesta dei sentimenti non riescono a nominare altro che il nemico. "Non è di Dio che volevo parlarvi, - dice Pierre - ma c'è tra noi un legame più forte dei legami di sangue". L'abiura del monaco in fuga, per lui, e per lei la noia e la stanchezza della malmaritata che l'avevano spinta all'adulterio con il cognato: spietate, incalzanti, le loro verità mettono a nudo che entrambi "hanno amato il male" e ne sono prigionieri. La scena della seduzione diventa una cerimonia di possessione; il nemico "è entrato". Com'era entrato dalla portineria del convento quel giorno in cui - piccolo Faust sedotto dal fascino ambiguo di una popolana, che vedrà poi riapparire lacera e affamata nei dintorni del castello, con un figlio in braccio, fantasmatico rimorso - Pierre baratterà il proprio stato religioso con i piaceri della carne. Come, ancora, s'aggira nelle stanze buie e fredde del castello e nelle anime fuorviate dei suoi quattro abitatori intenti a odiarsi, a preparare trappole, a spiarsi a vicenda, a meditare vendette. Eccolo, il nemico, apparire financo negli specchi che riflettono la noia della prigioniera del castello, di Elisabeth, che pure saprà trovare, sola, la via della salvezza attraverso il sacrificio; ma che anche nella passione travolgente per Pierre non potrà superare lo smarrimento e il vuoto: "Come può tutto questo essere insieme così vero e così falso?... Chi ha ragione in questa storia? Sono le pietre di questo castello, il pavimento su cui cammino, le candele che si consumano nei candelieri, queste mani che sono le mie mani, questo vostro viso che tocco e adoro o tutto quel che sento in me, indiscutibile e sicuro, questa voce che niente fa tacere e mi ridice notte e giorno che il mondo è come non fosse, che la vita è altrove e che perfino tra le vostre braccia io sono la straniera che la terra guarda come un'intrusa, che gli alberi, le case, le strade non riconoscono perché viene da un altrove...".
Ed eccolo alla fine, il nemico, nel segreto terribile della porta murata, là dove i sicari mandati da Jacques, intenzionato a difendere col crimine la sua passione per Elisabeth, hanno assassinato Pierre; e dove Philippe, nel drammatico finale, propone a Jacques, ricattandolo perché ha saputo, di riprendere il ménage à trois come se nulla fosse accaduto, al fine di trattenere la donna, che dopo la morte dell'amato ha manifestato la volontà di chiudersi in convento: "Non dite niente, Jacques; però pensateci... Voglio che rientriate nelle buonegrazie di Elisabeth, ch'ella si trovi bene qui a Silleranges come un tempo; ch'ella vi rimanga. Mi capite?". Ma Elisabeth - che segue come un automa il marito e l'amante riconciliati dalla complicità, sulla strada per la chiesa di Silleranges dove s'annuncia un'amara primavera - è tutta perduta nel suo sogno d'amore e di espiazione. Cerca Pierre, e nel cercarlo l'immagina nascosto "dietro la grande porta che sale sino a Dio". "È venuto stanotte, nei suoi abiti tessuti di fiamma. Ascolta, m'ha detto, la predicazione del fuoco. Il mondo e le sue più belle apparenze non t'inganneranno mai più, né il fiore che tieni tra le dita e odori al cader del giorno, né il sangue che subito spande i suoi colori sulla guancia ove posi le labbra. Anche i demoni hanno la fede, Elisabeth; e tremano...". Il male è ovunque, può nascondersi anche dietro l'innocenza, ma all'anima che non vuole perdersi resta il cammino nel roveto ardente dell'espiazione. E certamente si può dire, con Gianfranco Rubino (in La letteratura francese del Novecento, Rizzoli Ed.), che in testi come L'ennemi si rivela senza schermi il Green cattolico, "perché il flusso di segni fra il divino e l'umano s'inquadra troppo agevolmente in un processo stereotipo di manifestazione della Grazia, con relativa conversione e salvezza"; e però il pericolo di diventare autore edificante è contenuto, anzi minimo, considerato che "la tragedia terrena è rappresentata nella sua integrità, senza vistose sovrapposizioni consolatorie". C'è insomma e deliberatamente ("La letteratura edificante è farina del diavolo", ebbe a dire a chi scrive ]ulien Green in una conversazione del '91 a Parigi) la volontà di non abbassare lo sguardo davanti al nemico, di fare della letteratura a rischio della propria perdita negli abissi: come Dostoevskij, Bernanos, Mauriac.
Semmai, la posizione che in quanto credente Green si assegna, intendendo così salvare il mistero della fede dalle angosce di nevrosi terrene, è nel superamento - chiaramente avvertibile anche, e per fortuna, in L'ennemi - degli steccati psicologici del romanzo vecchia maniera, che non convengono al roman catholique (e alla drammaturgia cattolica). Fuori dagli stereotipi del dramma storico, al di là di ogni schematica contrapposizione di comportamenti e caratteri, nella no man's land dove l'invisibile si sovrappone alla realtà quotidiana, "i personaggi - l'osservazione è di R.M. Alberès - si sottraggono alle regole della psicologia tradizionale, poiché fra le motivazioni della loro esistenza terrena, tra i fattori della loro equazione psicologica s'introduce un elemento estraneo: la determinazione soprannaturale degli atti, delle parole, degli intendimenti. Avvertita dai personaggi come un'incognita terribile e misteriosa, finisce per modificare le loro reazioni, sovrapporre ad esse una invisibile, incoerente psicologia spirituale". Tutto questo fa un "teatro di anime" in perpetuo rischio, un movimento drammatico come nella dantesca "bufera infernale". Se in Green - come ebbe a dire Raissa Maritain a proposito di Leviathan - si può temere che la Grazia sia nascosta (assente no...), sta proprio nel suo inoltrarsi per cammini oscuri la forza persuasiva della sua narrativa, del suo teatro. L'ennemi va letto come Green l'ha scritto: per guardare in faccia il Male.
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