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La recensione di Roberto De Monticelli
 

Tecnica poliziesca per un dramma spirituale
Ogni anno sulla piazza del duomo di San Miniato, alta sulle colline, carica di tempo e di memoria, fra una torre dai merli guelfi e la chiesa duecentesca, per iniziativa dell'Istituto del Dramma Popolare, si organizza uno spettacolo eccezionale, improntato a spiriti cattolici. Si è già arrivati così alla decima edizione dell'iniziativa. Quest'anno è stata la volta del commediografo Diego Fabbri con Veglia d'armi, scritto appositamente per l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato. I Padri Gesuiti scelti dal Fabbri a protagonisti del suo dramma si riuniscono nel grande albergo di una non precisata città per un'assemblea che deve porre le basi della cristianità futura, o meglio si tratta di stabilire quale sarà la condizione cristiana nell'era che si apre, era che porta, chiari e spaventosi sul dorso, i segni dell'Apocalisse.
Intorno al direttore della Compagnia, che li ha chiamati, ecco il padre Farrel, gesuita statunitense e studioso di fisica nucleare, illustre scienziato ammesso nei laboratori della città atomica; il negro americano padre Hudson, lo spagnolo Pedro, che incarna la tradizionale astuzia diplomatica, fin troppo  terrestre,  dell'Ordine;   Stefano,  che  lavora oltre cortina, in quella «terra di missioni» che è la Russia.
Il problema è posto chiaramente: documentati come sono sulla vita del Cristianesimo nel mondo, i reverendi padri sono invitati a un rapporto delle loro esperienze; attraverso la loro parola si definiscono i vari tipi umani che essi rappresentano. Pedro, per esempio, è un conservatore. Pur avvertendo che nella politica sono nascoste le più insidiose tentazioni del Maligno, egli è convinto che la Compagnia debba continuare ad influire sulla storia attraverso il controllo dei grandi della Terra e un eventuale fiancheggiamento, ove torni utile, delle loro azioni.
Stefano, uomo di combattimento, è invece per una diretta costruzione della storia, come fu fatto, secoli addietro, proprio dai gesuiti, nel Paraguay, quello stato sperimentale nei cui ordinamenti era riconoscibile un comunismo ante-litteram. Ma Farrel, uomo di scienza, scuote scetticamente il capo: la conquista del mondo non si potrà fare nel futuro attraverso la politica ma servendosi di quello strumento dalle possibilità illimitate che è la Scienza. Di qui, l'atroce dubbio:  se è vero che, attraverso la scienza, l'uomo arriva direttamente a Dio, non si troverà egli costretto a rinunciare a quel sublime intermediario che è Cristo? Si riaprirà dunque l'evo del «Padre», concluso dalla Rivelazione? Questo dubbio, che è come una punta nel corpo mistico della Chiesa, sconvolge i convocati alla singolare assemblea, che sembrano non più trovare un punto fermo, una certezza.
Ma il maìtre d'hotel li sorveglia: è costui un signore servizievole e insinuante, alla parola gentile e un poco ironica ma dallo sguardo acuto e pieno di fuoco, anzi di «fuego»; perché si tratta, sì, proprio di lui, S. Ignazio di Loyola, del fondatore dell'Ordine, reincarnatosi in quel mondano prototipo di frivolo demiurgo che è il maitre d'un grande albergo, il maggiordomo dei corridoi, degli ascensori e degli atri. Coadiuvato da S. Francesco Saverio, che veste i panni di un viaggiatore venuto dall'oriente, egli guida i reverendi padri: interviene continuamente, ora con un pretesto ora con un altro, nei loro colloqui, determina le loro azioni di quel momento, coinvolgendoli ad un certo punto nella vita del grande albergo, nei cui saloni risuonano allegre note di jazz e la vita inconsapevole brilla nei suoi momenti supremi che sono quelli dell'amore.
Padre Hudson, il prete negro, nutrito di Vangelo e di « spirituals » è il primo che capisce questo richiamo alla vita quotidiana e che, uscito dalle astratte formule, lancia il suo grido d'amore per gli uomini, amore cristiano, radicato com'è, simile ad un'albero, nel corpo mistico di Cristo. Gli altri lo seguiranno; prima l'uomo di scienza e l'uomo di missione, quello che viene dai Paesi privati della fede, poi anche il sottile diplomatico del S. Uffizio, che interrompe le caute trattative intavolate sulla base dei soliti compromessi con gli emissari del mondo senza Dio; e anche il perplesso direttore della Compagnia. «Così, insieme, io vi dico che appiccherete fuoco al mondo e farete un'altra storia cristiana» afferma il singolare maggiordomo, che è in realtà il supremo generale dei soldati di Cristo.
Diego Fabbri continua, con quest'opera riuscita solo a metà, il suo lavoro di edificazione di un teatro cristiano moderno. Uno dei personaggi afferma che il cristianesimo autentico è sempre o scandalo o martirio. Il Fabbri ha scelto, nella sua intensa  attività di  drammaturgo,  lo  scandalo,  inteso ben s'intende nell'accezione intellettuale del termine: lo scandalo che a teatro vuoi dire sorpresa, colpo di scena, tecnica da copione poliziesco applicata ad un dramma spirituale. Certo, ci vuole un certo coraggio per far sorprendere due amanti nella camera d'un albergo da un gruppo di padri gesuiti in abiti borghesi.
C'è insomma quella specie di apparente irriverenza (è in realtà stretta ortodossia) che da un sapore piccante ai drammi religiosi del Fabbri. Ma il gioco è riuscito solo a metà, come si è detto, nel senso che ad un primo tempo teso ed ispirato segue un secondo tempo macchinoso, nel quale l'azione drammatica vive di pretesti e i fatti sono meno convincenti della dialettica da cui nascono.
Da notare un'ottima dinamica regia di Orazio Costa, ambientata in un'allusiva scena di Misha Scandella; e una fluida e insieme poeticamente concitata recitazione da parte di Tino Buazzelli, il direttore della Compagnia, Aldo Silvani, lucido e appassionato padre Farrell, Annibale Ninchi, il lirico prete negro, Augusto Mastrantoni, il capzioso gesuita spagnolo, Sergio Fantoni, l'ardente avamposto d'oltre cortina; Arnodo Foà era il santo di fuoco vestito con il tight del maìtre d'hotel; una interpretazione tutta delicatezza e misura. L'autore assisteva alla rappresentazione e, in prima fila, fra il pubblico, erano alami importanti padri gesuiti; veri, questi, con tanto d'abito talare, fronti austere e leggermente corrugate, sguardi attenti e immoti dietro grosse lenti da studiosi.
Il gruppo degli interpreti principali è stato ben coadiuvato dagli altri, Delia Bartolucci, Luciano Milani, Renée Dominis.
Anche il sindaco di Firenze, La Pira, era intervenuto allo spettacolo. Per sabato sera è atteso il Presidente della Repubblica Gronchi. Un folto pubblico, che ha stoicamente resistito alle raffiche di vento scatenatesi nella sera limpida sul sommo della collina, ha calorosamente applaudito il dramma alla fine, con l'autore e gli interpreti.
Roberto de Monticeli, Il Giorno, Milano, 30 Agosto 1956




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