Billy Budd, un piccolo Gesù sacrificato alla legge del mare
La rappresentazione del male, che da Medea a Tieste a Jago vanta molti eroi, ci conduce sempre verso il mistero; anche nel caso più abissalmente penetrante dello Stavrogin dostoevskiano. Nel sublime apologo di Billy Budd, che coronò con un'altra storia di mare e di ossessioni il tormentato interrogarsi di Hermann Melville sulla natura e sull'animo umano, a contrapporsi al demone, in un paesaggio cosparso di simboli e di segni della storia, c'è l'angelico marinaio del titolo, che non conosce la propria età ed è sceso da un vascello chiamato «I diritti dell'uomo». È l'immagine dell'innocenza, che, come accade solo quando chi scrive si trova in stato di grazia, riesce a essere prepotentemente viva e a sedurre compagni di navigazione e lettori, e a rimanere nello loro memoria anche dopo la sua fine.
Perché, come sappiamo, inconsultamente il ragazzo puro ucciderà con un pugno, che in realtà è semplicemente un segno, il suo persecutore e nonostante la forza delle attenuanti verrà condannato all'impiccagione, immolandosi con la gioia del puro di cuore. Pronuncerà il giudizio il capitano, a sua volta ammaliato, ma integro e costretto a rispettare il dettato della legge e la terribilità della Bibbia i cui versetti risuonano in ogni suo discorso. Ama anche lui; ed è certamente l'amore, quell'amore che allora «non diceva il suo nome», la chiave che non si può ignorare in questa storia dai profondi risvolti etici e sacrali.
Su un piano allusivo resiste la passione nell'adattamento teatrale firmato da Enrico Grappali per l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, che peraltro dovendo sciogliere in battute l'atmosfera fortemente enigmatica del racconto gli da un irrimediabile carattere di sceneggiato, legato a esplicite concretezze, anche se espresso come una rappresentazione di fantasmi morti da tempo e intenti a ricreare una leggenda, quando il pennone a cui Billy Budd era salito a immolarsi, viene venerato come «un pezzo di legno della Croce». E concreta, anche se bellissima nel suo biancore levigato, e nella plastica immobilità da monumento, è la nave apprestata da Pietro Cascella, in gara scultorea con l'Arnaldo Pomodoro dei Drammi marini, ma senza riuscire ad attingere a una potenza così scenicamente evocativa.
La regia di Sandro Sequi cerca di ritrovare il senso del mistero scolorendo il realismo dell'azione, dilatando le pause, isolando i gruppi umani nella vaghezza, con l'angelo quasi sempre in cima all'albero maestro, liberato da un canto che lo distanzi rispetto alla sapienzialità del Capitano di Massimo Foschi, già collaudato dai suddetti Drammi di O'Neill, alla brusca efficacia di Corrado Pani, maestro d'armi malvagio, alla spiritata eccitazione da veggente di Maurizio Gueli. Al centro del bel quartetto, Maximilian Nisi è un Billy Budd in grado di raggiungere una diversa verità nel suo percorso ascensionale, per quanto poco aiutato dalla debolezza delle canzoni di Franceso De Luca e Alessandro Forti. Tra gli altri si notano Pino Censi, «novizio» spione ma succube dell'Angelo, il sadico Giancarlo Condé, Alessandro Pala, Adriano Arrigo, Gabriele Tuccimei, coi bei costumi materici di Cordelia von den Steinen.
FRANCO QUADRI, La Repubblica, 27 luglio 1997
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