La recensione
Ha cinquantatré anni la Festa del Teatro che si svolge dal 22 al 28 luglio a San Miniato, tra Firenze e Pisa. Quando l'Italia non era ancora popolata di festival estivi, quando le sagre della caciotta o del vin brulé o della salsiccia non avevano ancora assunto il valore culturale che la Carica degli Assessori avrebbe loro imposto, ebbene, quando l'Italia era e si sapeva povera, e solo i pensieri essenziali trovavano posto nei magri budget e nelle avare programmazioni; ecco, a quel tempo la Festa del Teatro di San Miniato esisteva già. Tutti i pensieri deboli e flebili che hanno attraversato il teatro in questi decenni non hanno intaccato gli intendimenti di questa festa: primo, promuovere mediante il teatro una riflessione sui temi centrali del senso religioso e della fede, che sono poi i temi centrali del Teatro e della Vita stessa (che è Teatro); secondo, porre in atto questa riflessione non soltanto attraverso la forza delle regie e la persuasività degli attori, ma anche (fatto ormai inconsueto in Italia) attraverso il rischio degli autori.
Poco amore per gli Autori significa poco amore per il padre, e dunque per la paternità che ci tocca tutti, per il Destino che ci ha fatti come ha voluto lui, e non come vorremmo noi: quel Destino cui il cristiano, avendone sperimentato la misericordia superiore a ogni immaginazione, non potrebbe dare altro nome che quello di Padre.
Rischiare sull'Autore, e perciò sull'autorità, e perciò sulla paternità. Questo il patrimonio, di cui l'albo delle cinquantatré edizioni dellla festa di San Miniato ci è fedele testimone. Non citiamo, per ragioni di spazio, i nomi di coloro che hanno scritto e lavorato per questa Festa, che ha saputo chiamare al rischio del testo persino Karol Wojtyla. Quest'anno è stata la prima volta di uno tra i migliori esponenti della nuova drammaturgia italiana, Roberto Cavosi. Autore coltissimo, desultorio forse negli esiti, ma sempre ben consapevole della natura e degli inghippi del mestiere, e quindi vero autore di teatro, di vere pièces insomma, e non di sceneggiature.
Giocando con Shakespeare e con Kafka, Cavosi ha offerto al pubblico di S. Miniato Cavaliere di ventura, un testo dei primi anni '90, finora mai rappresentato. La vicenda si svolge ai piedi del castello di Amleto (che è lo stesso di Kafka): è morta da poco Ofelia, suicida per amore di Amleto. Due becchini ubriaconi la stanno interrando. Giunge intanto il cavaliere di ventura Fortebraccio di Norvegia. È stanco e invaso dal dubbio. Lui, uomo d'azione rude e deciso, ha vissuto un'avventura straordinaria, durante la quale ha dovuto fare i conti con la vita, la morte e il diavolo. Purificato da questo evento, ma roso dal dubbio che lo tiene in bilico tra il «sì» e il «no», Fortebraccio giunge là dove Ofelia è stata sepolta. Fortebraccio apprende la storia infelice di Ofelia, la cui morte non è però una bestemmia contro Dio. Dalla tomba sorge una rosa, che parla con la voce di 0felia, e dice dell'anelito alla vita che oltrepassa la morte. Intanto, però, muore anche Amleto, e l'Agrimensore, misterioso amministratore del Castello, scende a invitare Fortebraccio a prenderne il posto. La rosa, alla notizia, chiede di essere recisa e posta tra le braccia dell'uomo che non aveva saputo amarla. Sarà Fortebraccio a renderle questo doloroso favore prima di salire al Castello.
Limpida metafora della Resurrezione e della Grazia, Cavaliere di ventura è costruito secondo una ritmica serrata, tutta fatta di coppie (Ofelia e Amleto, la morte e il diavolo...) a imitazione di quella coppia suprema - "io" e "tu", ossia Creatore e creatura - che tutte le compie in sé, perché neppure il diavolo è esente dal Disegno di Dio.
Il ritmo del testo trasognato e danzato a un tempo giustifica ampiamente la splendida presenza, nella parte di Ofelia di Carla Fracci, che all'incanto della danza sa unire - ma lo sapevamo già - la grazia nel porgere la parola. All'altezza anche gli altri interpreti diretti da Beppe Menegatti.
LUCA DONINELLI
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