LA PACE? TUTTO SEMBRA DIRE DI NO, MA SI PUÒ FARE, AMIGO!
Un fuoco di parole, personaggi, situazioni. Un'orgia di informazioni che catapulta altrove, dentro una guerra, a fianco di un fronte popolare secessionista, faccia a faccia con un drappello di uomini che difendono una causa cercando la giustìzia degli sconfitti. Il dilemma del prigioniero segna un ' importante svolta per la Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, che dopo lunghi anni di militanza abbandona il teatro spirituale (ma la spiritualità, a ben guardare, la si ritrova eccome) per mettere in scena un testo contemporaneo, politico, di stampo chiaramente giornalistico. Per la pièce di David Edgar quella del regista Maurizio Panici è la prima realizzazione italiana: tagli corposi approvati dall'autore (presente e compiacente alla prima di giovedì sera), una piazza come teatro, un pubblico giovane e numeroso attirato probabilmente dai temi che odorano di attualità. Santa Cruz, California, 1989: dietro al tavolo in cui si simula un trattato di pace a scopo accademico siedono personaggi assortiti ma algidi, si costruiscono teorie, assunti, teoremi. Ma la realtà sbuca fuori quando meno te lo aspetti: esiste davvero, caro professar Rothman, una comunità secessionista musulmana, i Drozdani, dentro la ex repubblica russa di Caucasia. E non varranno tutte le parole spese da mediatori internazionali per riuscire a giungere laddove basterebbe un soffio per approdare, alla pace. Aiutato da un supporto multimediale da lui stesso curato, il regista crea tre scenari che si succedono, in un crescendo di forza espressiva perfettamente in linea con il climax drammaturgico: dal volutamente piatto tavolo delle parole (in cui la narrazione assume la tensione di un radiodramma), alla terrazza delle Nazioni Unite in cui (non) si firmerà l'accordo tra le due fazioni (le bandiere proiettate sventolano, ma il bel quadretto si romperà come un castello di carte alla notizia dell'ennesimo attentato), fino alla portaerei finale dove si tireranno le fila della vicenda, davanti ad un mare di incomunicabilità infinito. E grazie ai ritmi cinematografici, in cui le didascalie all'azione sono anch'esse sparate sulla scena, le oltre due ore di storia coinvolgono, convincono, appassionano.
Sul fatto che la guerra, il terrorismo, la pace internazionale siano temi attuali ed universali forse non è necessario insistere, semmai c'è da dire che il trabocchetto della retorica è stato eluso. E se il testo scivola a tratti nello scontato («Non si è mai fatta una guerra tra due paesi dove c'è McDonald»), la resa nella messa in scena è soddisfacente. La compagnia è amalgamata e più che diligente nell'affrontare il bell'impegno che un teatro di parola di tal fatta impone. Se Maria Paiato offre una rotonda e credibile immagine della mediatrice Gina Olsson, Andrea Buscemi, fuori dal coro, colora il personaggio di Roman con istrionica sicurezza. Applausi sinceri, anche se il lieto fine, ahimè, non rincuora.
Valentina Grazzini, L'Unità - 25 luglio 2004
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