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La recensione di Carlo Maria Pensa
 

La recensione

 

L'asinello del povero Josè

San Miniato, anno ventisette. Le «Feste» dell'Istituto del Dramma Popolare sono gli unici incontri, dal 1947 ad oggi, che garantiscano, per programma statutario, la continuità di un repertorio spiritualistico; e potremmo dire cristiano se, opportunamente, non fosse stato dato spazio, nel 1961, anche a un testo ebraico, di Moshe Shamir "La guerra dei figli della luce". Da Ghéon a Claudel, da Eliot a Bernanos, da Graham Greene a Fabbri, la rassegna si è mantenuta, mediamente, a un alto livello, con appena qualche scarto da attribuire non tanto all'impegno delle realizzazioni quanto alla difficoltà di reperire testi in un settore della drammaturgia moderna e contemporanea progressivamente in crisi più per l'irresponsabile abdicazione della cultura cattolica che per l'organica invadenza del teatro di ispirazione materialistica. Le nostre riserve sul lavoro compiuto prima da don Giancario Ruggini ed ora, con nuovo spirito di battaglia da Padre Valentino Davanzali, si riferiscono seminai alle troppo rare occasioni che gli spettacoli hanno avuto d'essere ripresi fuori San Miniato, esaurendosi in un ciclo di repliche non soltanto antieconomico ma, soprattutto, inadeguato al valore ideologico del messaggio particolarmente significante e coraggioso dato il clima, per tradizione digestivo, delle estati teatrali.
L'opera portata quest'anno alla ribalta — la maliosa ribalta naturale della piazza del Duomo — esprime, per un certo verso, la volontà di recuperare il fondamento «popolare» delle scelte: "Il pellegrino del Nordest" di Alfredo Dias Gomez, brasiliano, è infatti un dramma abbastanza aperto alle esigenze di una platea non specificamente pensosa, ancorché vi si dibattono problemi di consistente spessore, in primo luogo quello del sincretismo religioso, e poi quelli della strumentalizzazione di qualsiasi evento, anche d'ordine spirituale, da parte della società dei consumi, nonché della libertà intesa come diritto dell'uomo a godere della propria dignità. Lo svantaggio dal quale si muove è d'essere stato scritto nel 1961, cioè prima che il mondo cristiano fosse sconvolto dal grande dettato del Concilio Vaticano; ma è uno svantaggio in cui si implica, per converso, l'ansiosa preveggenza dell'autore. Oggi la Chiesa, in Brasile, vive una realtà in cui è lecito supporre che non vi abbiano più cittadinanza preti come Padre Olavo e il suo Vescovo, i quali negano l'ingresso nel tempio di Dio al povero contadino José venuto fino a Bahia, dal suo paesello distante sette leghe, con una croce sulle spalle per sciogliere un voto. Intendiamoci: né Padre Olavo né il Vescovo (che parla per bocca d'un suo delegato) sono poi così sordi da non trovare una giustificazione teologica nella loro prudenza. José ha fatto il voto per ottenere la guarigione del proprio fedelissimo e indivisibile asinelio; e lo ha fatto a Santa Barbara, ma poiché al suo paese non ci sono immagini di Santa Barbara, s'è rivolto direttamente a Jansan, divinità pagana che, nella figurazione dell'animismo africano secondo la pratica culturale del cosiddetto con-domblé brasiliano, corrisponde alla vergine e martire cristiana. C'è insomma, quanto basta, di spropositato e d'assurdo, nell'atteggiamento del contadino, perché la sua povertà di spirito sembri svaporare verso i limiti di una furbizia blasfema o, quanto meno, irriverente. Una fede anzi una buona fede, inammissibile in un mondo qual è l'attuale, che infatti coglie immediatamente gli aspetti utilitaristici della situazione: un venditore di rinfreschi incrementando il proprio commercio con coloro che accorrono a vedere l'uomo della croce, un giornalista cercando di assicurarsi l'esclusiva della notizia, uno sfruttatore di prostitute trascinandosi a letto la moglie del pellegrino, un poliziotto vedendo nell'incauto un seminatore di ribellione. Solo i più umili tra gli umili — gli scaricatori del porto e una venditrice di frittelle vincolata alle credenze del con-domblé — leggono nel cuore del poveretto la sua verità: che, tutto sommato, è la verità di un uomo incapace di venire meno alla parola data, a chiunque e comunque l'abbia data.
Al di là della problematica teologica e sociale, il senso profondo del dramma sta qui: nel rispetto che José nutre
verso se stesso; disposto, nella sua contadinesca cocciutaggine (per cui il suo somaro «graziato» assurge alla dimensione di un simbolo), a pagare il debito fino in fondo, cioè fino alla morte. Il che avviene quando dal fucile di un poliziotto parte un colpo, e allora — in una scena di fin troppo facile effetto catartico — José, issato dal popolo sulla sua croce, come un Cristo, potrà finalmente entrare nella chiesa.
Ruggero Jacobbi, traduttore e riduttore del testo, oltre che regista, ha reso male in "Il pellegrino del Nordest" il titolo originale, "O pagador de promessas", che non per niente era stato mantenuto al film di Anselmo Duarte, vincitore del Festival di Cannes 1962 e poi presentato in Italia con un titolo altrettanto puntuale: "La parola data".
Sfumature. Diciamo piuttosto che ad onta di talune sovrabbondanze, a noi più evidenti perché rilevate sul gusto folcloristico brasiliano e nonostante la grossolana ovvietà di certi personaggi e di certe soluzioni, il copione di Dias Gomez ha fermato con austera asciuttezza l'attenzione del pubblico anche grazie al compostissimo intervento di Jacobbi, cui va innanzi tutto riconosciuto il merito di avere utilizzato totalmente, cioè senza il minimo apporto estraneo, la scenografia delila piazza; in secondo luogo, di non aver ceduto, lui così dotto conoscitore del Brasile, alla tentazione di troppo grasse pennellate «locali»; infine, d'aver mantenuto nelle coordinate dell'intelligenza e della sobrietà la recitazione di tutti gli attori, così i più ricchi di temperamento come i meno dotati. Tra i primi: Renato De Carmine, protagonista di disarmata chiarezza e di toccante (ma non liquorosa) intensità; Carlo Alighiero, irreprensibile in quella «tinca» di Padre Olavo, ed Elena Cotta, la moglie di José, dimessa e fremente al tempo stesso: Olga Gherardi, fiammeggiante e vistosa malquerida, e Vittorio Ciccocioppo, pittoresco eppure non macchiettistico magnaccia. Da ultimo ricorderemo, chi per compattezza di caratterizzazione, chi per ben governata disinvoltura, Giorgio De Giorgi, Sarah Di Nepi, Marco Messeri, Gioacchino Soko, Guido Paolo Marziali, Erasma Lo Presto e un cantante di colore (di pelle e di canzoni) che crediamo si chiami Claudino Filho.

CARLO MARIA PENSA La Fiera Letteraria, Roma, 9  Settembre 1973




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