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La recensione di Aggeo Savioli
 

La recensione

Le mani monde grondano sangue

Alla sua quindicesima edizione, la Festa del Teatro di San Miniato si è trasferita nella città di Pisa: lo spostamento di sede, ufficiosamente giustificato con motivi di equità turistica, trova più sottili ragioni nell'ostilità decretata dal vescovo sanminiatese verso una iniziativa che, pur nascendo a suo tempo dal rovello di qualificati ambienti culturali cattolici, avrebbe avuto negli ultimi anni il torto (cioè, secondo noi, il merito) di tendere alla ricerca di testi troppo problematici e, in certo modo, eterodossi. Comunque sia, il dramma di stasera, che di problemi ne pone pure parecchi, e che è dovuto alla penna di uno scrittore ebreo, è stato accolto con schietti consensi dal folto pubblico, nel quale si notavano il Presidente Gronchi, l'ambasciatore di Israele, autorità locali, Sophia Loren.
Sdegnando l'agghindata verzura del Giardino Scotto, gli organizzatori dello spettacolo e il regista Franco Enriquez hanno voluto porre a sfondo di questa Guerra dei figli della luce, le macerie del Teatro Politeama, distrutto durante il secondo conflitto mondiale e non ricostruito: scelta intelligente e suggestiva, poiché i ruderi smozzicati di quell'edificio, cosparsi di erbe maligne, accrescono di continuo, visivamente, le risonanze attuali di una vecchia vicenda collocata in epoca remota da noi.
Moshe Shamir, romanziere ed autore drammatico tra i più attivi oggi in Israele, ha ricreato nella Guerra dei figli della luce la fase culminante della lunga, cruenta guerra civile divampata in Giudea nel primo secolo avanti Cristo, sotto il regno tirannico di Alessandro Jannai. Costui, discendente dei Maccabei, leggendari eroi nazionali, aveva ben presto mutato il proprio governo in dominio dispotico, lanciandosi in guerre di conquista, arruolando mercenari, esautorando il Sinedrio, incrudelendo su chi facesse opposizione alla sua politica. Contro di lui si levano dunque i «figli della luce», guidati da Jossi Ben Simeone e dal Sacerdote Aba Saul, per ristabilire, con le armi, la pace e la giustizia.
Tra gli insorti e il tiranno, che sono come i poh' della azione drammatica, ondeggia tragicamente la figura di Simeone Ben Shetach, il Gran Rabbino d'Israele: questi, pur riconoscendo e proclamando l'empietà di Jannai, ritiene iniqua anche la ribellione, soprattutto quando i «figli della luce», per tener testa alle preponderanti forze del monarca, chiamano in aiuto Demetrio di Siria, un sovrano straniero e idolatra. Vanamente Simeone tenta di convincere Jossi ed Aba Saul a rompere quello che per lui è un peccaminoso connubio, e per loro un semplice patto di alleanza momentanea, nobilitato dal fine che essi si propongono: la liberazione del popolo ebraico. Vanamente, altresì, il Gran Rabbino, con l'aiuto indiretto di sua sorella Salomite, che è moglie di Jannai, cerca di persuadere quest'ultimo ad abdicare dal potere.
In campo aperto, Jannai viene sconfitto dalle truppe coalizzate di Jossi e di Demetrio: con i resti del suo esercito, ripara in una munita fortezza, portando seco prigioniero il Gran Rabbino. Ma i frutti della vittoria sono amari per i «figli della luce» : mentre gli alleati siriani si danno al saccheggio e alla devastazione, altri stranieri, gli arabi, dopo avere offerto i loro servigi ad entrambi i contendenti, invadono le terre palestinesi. Simeone, in catene, e tuttavia saldo nel suo prestigio spirituale, si presenta nuovamente come mediatore: i capi degli insorti vengono accolti nella fortezza per le trattative, che potrebbero ricreare l'unità dei giudei dinanzi al comune pericolo. Jannai, però, tesse nell'ombra il tradimento: ha stretto un accordo segreto con il fratello del re Demetrio, e quest'ultimo, seguito dai suoi uomini, deve tornare precipitosamente in Siria, dove il trono sembra vacillare. Rimasti soli, i massimi esponenti dei ribelli sono incarcerati e messi a morte dal re spergiuro.
Solo adesso Simeone Ben Shetach, che Jannai oltraggiosamente risparmia, comprende il proprio irreparabile errore: ha voluto procedere sulla strada di mezzo, e si è fatto strumento del tiranno; ha voluto conservare monde le sue mani, e le ha macchiate del sangue dei «figli della luce». La lunga confessione di lui al figlio Nitai (che ha combattuto fra gli insorti, ma ha potuto salvarsi) e al discepolo Shemaia racchiude il nucleo morale dell'opera: non è possibile difendere la purezza dell'anima quando infuria la lotta.
Pure, per la lotta, Simeone Ben Shetach non è ancora pronto; e mentre Nitai riprende il suo posto nelle file dei ribelli superstiti, il vecchio sacerdote tenta di ritrovare la fede turbata, insegnando un principio ormai cristiano («Ama il prossimo tuo come te stesso») a un asinaio arabo, Aba Talion, che crede in lui non per le parole dette, ma per un gesto umano e generoso che Simeone ha compiuto.
Anche da una sintesi così necessariamente schematica, pensiamo risulti l'elevata qualità ideale del dissidio che La guerra dei figli della luce drammatizza. Moshe Shamir (che al personaggio di Jannai aveva già dedicato un romanzo, Un re di carne e sangue) guarda alla storia con la passione d'un uomo d'oggi, ed evidente è lo sforzo per contrapporre, al venerando rituale della scena ebraica, un teatro modernamente articolato nella tematica e nei modi espressivi: si avverte in lui l'eco di letture meditate ed aggiornate (Sartre soprattutto); tuttavia il suo linguaggio non è privo di scompensi, che riflettono forse anche la difficoltà della connessione tra un'oratoria di ascendenza biblica e l'asciuttezza di un dialogo funzionale. Ma ci sembra che il contrasto di fondo sia tra l'intensità del dibattito delle idee, che costituisce la vera, robusta sostanza del testo, e una certa owietà o frammentarietà nella definizione psicologica dei personaggi, particolarmente femminili.
Di questo contrasto soffre in qualche misura la rappresentazione, cui converrebbero a tratti un ritmo più stringato e un più schietto uso delle luci. Non mancano, tuttavia, momenti di vigoroso, commovente risalto, come quello dell'arresto dei capi degli insorti, che s'impone anche per la bellezza figurativa. E a questo proposito è da sottolineare il pregio dei costumi, disegnati da Emanuele Luzzati.
Mario Scaccia ha reso al vivo la perversa ambiguità di Jannai, ma ha colto forse meno quella sinistra ombra di grandezza che pure si proietta sulle orme del tiranno. Glauco Mauri era un Simeone Ben Shetach d'indubbia dignità, e tuttavia non sempre commisurato alla statura del personaggio. Tra i migliori ci sono apparsi Gianfranco Ombuen, nitido e incisivo nei panni di Jossi, e Sergio Bargone, un pungente Aba Talion. Carlo Enrici, che era Nitai, dovrebbe moderare un poco il suo notevole temperamento. Efficace Raffaele Giangrande nelle vesti del sacerdote Aba Saul. Valeria Monconi, Lucia Catullo e Marisa Belli erano le tre donne della vicenda: rispettivamente la regina Salomite, la moglie di Jossi e la concubina del re.
L'autore, presente allo spettacolo (così come alle prove), ne ha condiviso l'ottimo successo. Repliche, da domani, sino a domenica.

AGGEO SAVIOLI, L'Unità , Roma, 24 Agosto 1961




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