La sconcertante attualità di Celestino
«Francamente mi sorprende che altri scrittori vantino la diversità di qualche loro opera... Se uno scrittore mette tutto se stesso nel lavoro, la sua opera non può non costituire un unico libro... Ormai è chiaro che a me interessa la sorte d'un certo tipo d'uomo, d'un certo tipo di cristiano, nell'ingranaggio del mondo, e non saprei scrivere d'altro. Il mio interesse è tutto rivolto al presente».
Questo leggiamo nella prefazione di Ignazio Silone alla sua Avventura di un povero cristiano, che lo scorso anno conseguì il premio letterario «Campiello». Silone, il cui collegare cristianesimo e marxismo è stato da sempre nella stessa misura problematico e scomodo tanto per i suoi ex-
compagni di partito quanto per i cristiani, ha scritto come romanzo in forma di dramma la storia dell'eremita Pietro di Morrone, che ascese al trono papale come Celestino V nel 1294, dopo un conclave durato due anni, e che abdicò dopo pochi mesi.
Il regista cinematografico Valerio Zurlini ha rielaborato il testo per la scena e lo ha presentato in prima assoluta con il Teatro Stabile dell'Aquila nella cittadina toscana di San Miniato.
Chi conosce il libro di Silone e lo ama come una delle opere più mature e incredibilmente attuali di questo sincero artista, non può non esser rimasto deluso da una riduzione teatrale, che nel suo stile stringato rende sì le linee, ma non la profondità dell'originale. Zurlini si è sforzato di rendere l'essenza del dramma: la tragedia d'un uomo, che soccombe di fronte alla contraddizione fra la sua fede pura di cristiano e la potenza e i compromessi del papato. Ha anche colto abilmente i legami attuali fra la «giovane» chiesa ribelle del XIII secolo e i problemi dell'odierna rivolta nella Chiesa, ma è rimasto in superficie.
Può essere dipeso dal fatto di non aver avuto tempo sufficiente per le prove: tutto è infatti apparso molto indietro. Forse lo spettacolo finirà con lo scorrere meglio accanto al magnifico sfondo del duomo romanico e davanti alle scene del pittore Alberto Burri, che ha innalzato qui per la prima volta e con risultati altamente suggestivi, le sue aggressive tele quali fondali e ha rivestito gli attori di costumi carichi di simboli. Il grande antagonista di questo papa suo malgrado, il cardinal Caetani, che gli succederà come Bonifacio Vili, Burri lo ha messo dalla testa ai piedi in un oro abbagliante, che corrsiponde al suo temperamento dominato dalla sete di potere, alla sua freddezza metallica.
L'azione si svolge, come in ogni opera di Silone, negli Abruzzi, dove la natura strapotente ha segnato la storia degli uomini attraverso i secoli. Monti e caverne intorno all'Aquila, la capitale, sono divenuti fino alla fine dell'ultima guerra rifugio di perseguitati e patria al contempo di uno spirito di fratellanza e di cristianesimo primitivo, lontano dalla gerarchia della chiesa. E da una caverna del Monte Morrone viene il quasi ottantenne eremita Pietro, che il conclave di Perugia ha eletto all'unanimità papa dopo ventisette mesi di feroce lotta per il potere fra le famiglie romane degli Orsini e dei Colonna. Per umiltà egli prende su di sé peso e onori del papato. Per umiltà e non per viltà, come ritenne Dante che per questo condannò Celestino V all'Inferno, egli abbandonò la carica dopo pochi mesi. «Dio ha creato le anime, non le istituzioni — dice Celestino V —. Le anime sono immortali, non le istituzioni, non i regni, non gli eserciti, non le chiese, non le nazioni».
E nel depliant del programma scrive un sacerdote: «Dal giorno in cui Papa Giovanni parlò per la prima volta della Chiesa dei poveri, sembra si siano svegliati dai loro sarcofaghi gli antichi contestatori medievali, per prendere la parola in concilio e oggi in ogni angolo della cristianità».
Ebbene, in questa calda notte toscana piena di cicale e di gridi di civetta, davanti a quanto accadeva sul palcoscenico non occorreva nemmeno la vicinanza geografica per avvertire la vicina voce di un disagio spirituale. Quel che i giovani frati francescani della scena dicono e soffrono, si compie quasi letteralmente appena quaranta chilometri più lontano nel dramma religioso dell'Isolotto a Firenze, dove il parroco Don Mazzi celebra la messa nonostante il divieto della Curia davanti alla sua chiesa chiusa e un'intera comunità si vanta del proprio diritto di vivere una forma di cristianesimo anarchico. Ai piedi del Morrone c'è Filetto, villaggio di sventura, con i suoi ricordi. La conferenza episcopale di Coirà è vicina, così come le rivolte in ogni angolo della Chiesa e il travaglio dell'ultimo congresso protestante.
Tutto questo è presente e fa di un lavoro teatrale una avventura dello spirito, anche se la «prima» non è stata troppo convincente dal punto di vista teatrale. Ed è stata così soddisfatta, nonostante tutto, la convinzione di Silone che: «il compito principale di uno scrittore è di render coscienti i contemporanei dei problemi della propria epoca».
Il regista Zurlini, che non trasferisce sempre felicemente la sua esperienza cinematografica in teatro, ha posto nel ruolo del vecchio eremita un giovane attore, Giancarlo Giannini, il Romeo di Zeffirelli. Ciò sorprende all'inizio ma convince in seguito grazie alla coerenza dell'idea registica. Il bravo giovane interprete diviene simbolo della Chiesa giovane, che nella profusione dell'amore cristiano demolisce il vecchio e vuoi dire nuovamente qualcosa di eternamente valido.
MONIKA VON ZlTZEWITZ, Die Welt, 16 Agosto 1969 Traduzione di M. Caciagli
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