La recensione
Una farsa spirituale
Spettacoli estivi, spettacoli all'aperto. Sono molti, troppi forse. Non sempre è agevole discernere il buono dal meno buono, la serietà dei propositi dall'improvvisazione e dalla faciloneria. Ma le rappresentazioni che l'Istituto del Dramma Popolare offre in questa cittadina, allungata con le sue chiese e le sue torri su uno dei poggi più ameni tra Firenze e Pisa, costituiscono un punto fermo, e un attimo di tranquillità, nel panorama un po' confuso e chiassoso dell'estate teatrale.
Anzitutto per la loro anzianità: è una «festa del teatro», come qui la chiamano, che si ripete dal 1947, senza interruzioni, come testimoniano le fotografie, i bozzetti, i figurini, i manifesti, raccolti ora in una mostra retrospettiva dei vent'anni di vita dell'Istituto. E in secondo luogo per la rigorosa scelta dei testi secondo una concezione non propriamente cattolica — anche autori protestanti e israeliti hanno avuto il loro posto — e neppure religiosa in senso stretto, ma, si vorrebbe dire, spiritualistica per indicare quel teatro che dibatte i grandi temi del destino dell'uomo e dei suoi rapporti con la divinità.
A questo teatro appartiene, a buon diritto, il poeta angloamericano Thomas Stearns Eliot, scomparso all'inizio dello scorso anno. I suoi drammi, da quell'"Assassinio nella cattedrale" che è una delle opere moderne più rappresentate nel mondo, sono già apparsi sul cartellone di San Miniato. Due ne mancavano, dei cinque che scrisse: "The cocktail party", messo in scena da Ricci nel 1950, e "Il segretario particolare". Ed è quest'ultimo, non ancora rappresentato in Italia, che si recita da questa sera sul sagrato della chiesa di San Francesco in una suggestiva cornice di verde e di antiche pietre.
"Il segretario particolare" — come s'intitola nella traduzione di Marcella Hannau Pavolini "The confidential clerk" — è del 1953. Penultimo lavoro di Eliot, è anche quello che, tra le pieghe di una commedia brillante, più dissimula uno dei temi profondi del teatro di questo autore. È difficile infatti alla rappresentazione più che alla lettura, accorgersi della vena mistica che serpeggia in questa vicenda di figli sostituiti, scambiati e ritrovati per la quale Eliot, come usava spesso, deliberatamente si rifa a un modello illustre del teatro greco, Ione di Euripide, ma anche al canovaccio che Plauto e Shakespeare, e tanti altri, hanno usato per le loro commedie a base di gemelli, infanti scomparsi e agnizioni.
La trama non è semplice. Sir Claudio e lady Elisabeth, che hanno entrambi avuto figli naturali prima del loro matrimonio, si disputano Colby, un giovanottone melanconico che sir Claudio ha cresciuto credendolo suo figlio e ora ha assunto come segretario, ma in cui la moglie d'improvviso s'impunta e riconosce il proprio bimbo abbandonato in fasce. E sir Claudio ha un'altra figlia naturale, Lucasta, che ha un fidanzato anch'egli trovatello, ma sta per innamorarsi di Colby, ignorando di esserne, forse, la sorella. In realtà Colby, come si scopre alla fine, non è figlio né dell'uno né dell'altra dei due contendenti, ma della donna che l'ha allevato fingendosi sua zia. C'è da aggiungere che Lady Elizabeth ritrova ugualmente il bimbo perduto nel fidanzato di Lucasta?
A questo punto, risoltosi un intreccio piuttosto abile e divertente ma che, proprio per la sua ironica inverosimiglianza si stenta a considerare diversamente da una satira della commedia borghese, riaffiora la vena spiritualistica: Colby, fra tanti genitori supposti o ritrovati, li rifiuta tutti. Preferisce accettare dall'ex segretario di sir Claudio — che viene ad assumere quella funzione di «guardian» (noi diremmo «angelo custode») che Eliot ama attribuire a certi suoi personaggi — un modesto posto di organista. Seguirà così la sua segreta vocazione, che era anche quella del padre vero mai conosciuto. Alla quale seguirà forse, ma l'aggiunta è forzata e sa di posticcio, una vocazione più propriamente religiosa.
Il dialogo, garbato e leggero (si badi che l'originale è in versi, sia pure quasi inavvertibili anche da un orecchio inglese), ricco di battute di sottile umorismo, conferisce a questa commedia brillante, o farsa spirituale, un tono di amabile e arguta conversazione che ricorda Shaw, II regista Josè Quaglio ha tuttavia preferito insistere sulla drammaticità, in verità piuttosto labile, delle situazioni e dei personaggi. Ha allungato i tempi, ha allargato le pause con una regia attenta e ispirata, ma anche un po' troppo sostenuta e impaludata.
Non tutti gli attori l'hanno seguito sino in fondo, e probabilmente non a torto. È stato così facile a Elsa Merlini dare vivacissimo spicco alla sua lady Elizabeth, a Lucilia Morlacchi e a Nanni Bertorelli di cogliere toni più giusti; mentre Gianni Santuccio, eccellente interprete, è sembrato tuttavia eccessivamente solenne e Giulio Bosetti, sensibile protagonista, un po' troppo trasognato e con quella vocazione mistico-musicale stampata sin dall'inizio sul suo viso assorto; efficaci e intonati Adriana Innocenti e Giuseppe Pagliarini.
Le due ariose scene erano di Misha Scandella, che ha anche disegnato i costumi, concorrendo con il regista e gli interpreti, tutti assai festeggiati alla fine di ogni atto e anche a scena aperta, al lieto successo dello spettacolo.
ALBERTO BLANDI La Stampa, Torino, 24 Agosto 1966
|