Un popolo in ginocchio sulla piazza del Duomo
Ricordo un vecchio film americano, Un popolo in ginocchio, dove la tragedia dei pellirosse schiacciati dalla «civiltà» winchester-alcoolico-ferroviaria era resa in serie di sequenze impressionanti e acute in un clima di epopea. L'umana tristezza, l'accasciamento, la dissoluzione psicologica dei vinti vi erano espressi senza forzature né compiacimenti rettorie!, ma con toni e immagini da antica tragedia, dominata dal fato. Tra le tante civiltà sommerse nel flusso del tempo, vittime della legge del più forte, quella degli «indiani del cosiddetto nuovo mondo può ancora dire qualcosa alla nostra sensibilità, al di fuori della consacrazione storica nelle sue linee ufficiali perché è la più vicina a noi: basti pensare che gli ultimi suoi «capi», gli ultimi suoi guerrieri erano contemporanei di Garibaldi. E come Garibaldi hanno le loro leggende. A queste leggende si sono ispirati Amieto Micozzi e Marcello Aste per il dramma L'erba della stella dell'alba, messo in scena dal Teatro Stabile di Genova e rappresentato, con vivissimo successo, ieri sera a San Miniato, sulla piazza del Duomo, per la XXV Festa del Teatro organizzata dall'Istituto del dramma popolare.
Sul «nucleo storico» delle estreme battaglie e della definitiva sconfitta degli «indiani», i due autori hanno costruito una vicenda, o meglio una rapsodia evocatrice del dramma del «Popolo in ginocchio». La simbologia, la trasfigurazione dei casi di «Alce Nero», «Ala d'Aquila», «Luna Verde», «Tuono di Fuoco», «Occhi di Cerva», «Lo Sciamano», «Orso Grande», «Daino Rosso», sono evidenti. Il «dramma» non resta circoscritto ai membri della tribù Oglala, non è confinato nella riserva chiusa dal filo spinato, ma si estende a una rappresentazione più vasta, ha risonanze universali, e la storia di ieri diventa storia di oggi, mentre su tutto dominano i motivi del rimpianto di un passato irrecuperabile. L'avvilimento, prima, la degradazione, poi, dei pellirosse i cui campioni più significativi sono ridotti a esibirsi come numeri di circo al comando di Buffalo Bill nelle capitali del vecchio mondo, a Londra dinanzi alla regina Vittoria che mostra «comprensione» per gli improvvisati saltimbanchi discendenti da un popolo «fiero e libero» ma si dimentica dei suoi ufficiali colonizzatori che adoperano per posacenere i teschi di negri massacrati, e a Parigi dove i neo clowns sentono raccontare i massacri della «Comune» dopo la guerra franco-prussiana. Tutto il mondo, in definitiva, è una riserva, potrebbe convenire, per consolarsi, «Alce Nero», l'ultimo guerriero della tribù Oglala, se la sua malinconia di esule non fosse tanta e tale da fargli perdere il senso della realtà, disperatamente ancorato alle misere illusioni che a lui e agli altri superstiti può dare la «rievocazione» di riti e finte battaglie per il pubblico che accorre al richiamo della «Compagnia del West selvaggio»: dal quale spettacolo, a ogni modo, esula un senso di attesa, una fatua speranza del futuro, di un «grande spirito» che potrà, un giorno, risollevare i vinti i dispersi i perseguitati.
Il dramma si avvale di un linguaggio semplice e, al tempo stesso poetico, al quale, talvolta, nuocciono certe insistenze liricheggianti, che fanno pensare a un'ingenua contaminazione tra Brecht e Garcia Lorca. Ma soprattutto la seconda parte è più lucida, tesa, carica di umori, vibrante, ricca di quella suggestione del tempo che fu, in virtù della quale si fa stimolante e commovente la visione religiosa dei Sioux con i suoi accenti di acceso e sincero messianismo quasi apocalittico, con l'attesa di un salvatore del popolo mandato dal Grande Spirito.
La regia dello stesso Marcello Aste ha cercato di creare, appunto, senza ricorrere a trovate sorprendenti o prevaricatone, di rendere questo clima di smarrimento e delusione su cui, di tanto in tanto, s'accendono fatue speranze I trabocchetti tesi alla recitazione da un tipo di spettacolo come questo non sono pochi, dalla parodia involontaria dei « film con gli indiani » al verso sbagliato ora per eccesso ora per difetto di toni, ora perentorio ora cantilenante. Gli interpreti del dramma di Micozzi e Aste si sono, invece, saputi imporre sulla scena, in una concatenazione di effetti audiovisivi che sono apparsi, chiaramente, frutto di una meticolosa preparazione.
Dèlie messianiche fantasticherie, delle patetiche allucinazioni, dell'infinita malinconia di Alce Nero, detto anche «il bambino-vecchio», una specie di Giovanna d'Arco dei pellirosse la cui fine è segnata dal circo di Buffalo Bill anziché dal rogo, Giulio Brogi, si è fatto comunicativo intermediario presso il pubblico che affollava la piazza e lo ha vivamente applaudito. A sua volta, Grazia Maria Spina, nelle vesti di una bella indiana innamorata di Alce Nero ma che, in ultimo, si rifiuta di seguirlo nella degradazione della «tournée» in Europa, ha messo in efficace risalto la spigliata tenerezza prima e, poi, la scontrosità sentimentale del personaggio. Guido Lazzarini, nella canizie veneranda di uno sciamano, Esmeralda Ruspoli in due figurazioni, Anna Menichetti, anch'ella in doppia parte (una delle quali una spiritosa regina Vittoria), Ugo Maria Morosi (un oglale e, poi, uno spassoso Buffalo Bill), Patrizio Caracchi, Edda Valente, Renata Ferrara, Attilio Cucari, Davide Maria Avecone, Sebastiano Tringali, Gianni Fenzi, erano gli altri attori, affiatati, tutti, e meritevoli, spazio permettendo, ciascuno di una segnalazione particolare. Scene e costumi di Franco Padovani. Evocative e, insieme, espressive le musiche di Piero Piccioni.
Vincenzo Talarico Momento Sera, Roma, 28 Luglio 1971
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