Tra cielo e terra un uomo solo
Ancora una volta l'Istituto del Dramma Popolare ha tenuto fede al suo impegno: scovare un testo teatrale che contenesse una forte tensione spirituale (se non religiosa) e che non fosse mai stato rappresentato in Italia. Spesso nella sua storia, lunga e anche molto gloriosa, l'Istituto ha portato alla luce opere di grandi autori lasciate in disparte. Quest'anno lui, l'autore, è August Strindberg, il nordico, solitario gigante del teatro novecentesco. E l'opera è La grande strada maestra, il suo ultimo dramma compiuto, scritto nel 1909, tre anni prima della morte.
Anche troppo facile individuare nella Grande strada maestra il testamento spirituale di un intellettuale inquieto, approdato dal nichilismo alla fede. La grande strada maestra appare prima di tutto come un'opera di poesia, al centro della quale sta un titanico protagonista, il Cacciatore, ferito per le molte battaglie intraprese, ma instancabile soldato, implacabile nei confronti degli altri e con se stesso. Sospeso tra zenit e nadir, il Cacciatore ha intrapreso un viaggio solitario, cercando di guadagnare le cime più alte e insieme sprofondando in se stesso per ritrovare «la pura sorgente» del suo io.
Nel suo cammino incontra un altro viaggiatore, ma gli è compagno a metà perché non è mosso dalla stessa ansia. Poi altri personaggi: fantasmi del passato, proiezioni dell'inconscio, due mulini che si chiamano Adamo ed Eva. l'Angolo degli Asini dove tutto il sapere è nelle mani di un fabbro. Fino alla perduta città di Thofeth, dove regna la truffa e la degradazione. Il Cacciatore naturalmente è un ex abitante di Thofeth: lui è uno che in passato ha fatto di tutto, persino l'architetto. Nella sua vecchia città fa ancora altri incontri e trova un giapponese di Hiroshima, depositario dì una visione della vita all'orientale, anche lui in viaggio, ma per una via opposta alla sua: l'autoannientamento per cremazione (il dramma di Strindberg risale a 36 anni prima della bomba atomica).
A salvare il Cacciatore sarà il candore di una bambina, l'unica creatura degna finalmente della sua commozione. Poi vincerà anche l'ultimo attacco di un tentatore che vorrebbe smarrirlo presentandogli il conto finale.
Cosi raccontato il dramma sembra pieno di accadimenti, in realtà è visionario, tutto interiore, esempio di quel soggettivismo che anticipava il teatro espressionista. E per questo andrebbe magari considerato in riferimento a quel dramma a tappe che Strindberg praticò e che ebbe il suo grande esempio in Verso Damasco. L'allestimento presentato a San Miniato e diretto da Mario Morini non dà nessun segno forte in questo senso. Si limita ad esporre blandamente, dividendo il campo d'azione del protagonista da quello delle sue visioni, facendo spuntare l'esercito dei fantasmi da un botola centrale e lanciandoli in alcuni siparietti di sapore brechtiano: i mugnai infarinati e la ragazza, il fabbro saltellante nel suo frac. Muller l'assassino in pelle nera. Nella costruzione (lo scenografo è Stefano Pace), che tappa la facciata del duomo (sarebbe invece uno straordinario scenario naturale per questo dramma che si apre con l'immagine di una croce atipica con un braccio verso l'alto e uno verso il basso) con una scatola nera e divide con lampi di luce sullo schermo del fondale il passaggio delle varie «stazioni» del dramma, molto del lavoro è affidato all'interpretazione degli attori.
Primo fra tutti Massimo Foschi nel ruolo del protagonista. Foschi è grandioso nell'esprimere la ritrosia a vivere con gli uomini che ha il suo personaggio e sfugge ad ogni cinismo, ad ogni tentazione isterica. La stessa misura, la stessa riflessione è offerta da Milena Vukotic che incarna la parte femminile del dramma in vari ruoli, dalla ragazza nell'episodio dei mulini al tentatore. Ugualmente convincente il viandante dì Carlo Simoni, mentre nonostante i suoi sforzi viene inesorabilmente ridotto a macchietta dal puerile costume (di Annamaria Heinreich) il giapponese di Carlo Simoni.
MARIA TERESA GIANNONI, Il Tirreno, 21 luglio 1990
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