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La Repubblica - La recensione di Rodolfo Di Giammarco
 

Zanussi racconta la pestilenza dei lussuriosi
Hanno fatto irruzione fieri cavalli, grandi scenari, antenati mistici di Braveheart, bambini cantori e, soprattutto, il castigo ai danni dei lussuriosi (piaga simbolica che oggi si chiamerebbe Aids), nello spettacolo con cui il regista polacco Krzysztof Zanussi ha reso omaggio al cinquantenario della Festa del Teatro sanminiatese, roccaforte del repertorio spirituale. Il re pescatore, dramma contemplativo e cavalleresco scritto nel '48 dal tutt'oggi appartato autore francese Julien Gracq, è un affresco idealistico e anti-eroico, si discosta dal superomismo che aleggia nel Parsifal di Richard Wagner, e suggerisce piuttosto i moti di una scelta esistenziale integralista, con infatuazione per una impresa che è appunto la ricerca e il culto del santo Graal, la coppa dell'ultima cena.
Ma pur nei suoi slanci o tormenti di natura talvolta più occulta che estatica, pur nel contesto abbreviato dei quadri (l'originale era un kolossal) che preludono una conquista del carisma in cui si cela un potere, un lavoro come Il re pescatore si fa notare per il monito incontrovertibile che commina guasti e piaghe a chi s'abbandoni a libero amore, e questo contrappasso sotto forma di malattia affligge re Amfortas colpevole di aver giaciuto con l'ex traviata Kundry, creatura che gli resta poi accanto per alleviare le sofferenze e le emorragie di quella peste che debilita il depositario di un Graal ormai non più ramoso, destinato a nuova lucentezza solo quando ne diverrà tutore un individuo puro al posto del monarca infetto. A Zanussi, da cattolico polacco, stava a cuore il tema della responsabilità per certe epidemie storiche, ma anche se l'intuizione di un peccato sessuale punibile con iattura e penitenza sconfina in una sorta di fanatismo leggendario, va dato atto all'illustre regista d'aver reso conflittuale e condivisibile la figura umana del re infetto, così come l'ardito e seduttivo giovanotto Parsifal è sì una bella e non stucchevole persona, ma veniamo indotti a vedere in lui anche un ultra senza troppe sfumature, un vincente per tenacia più che per strategia.
Detto ciò, il motore di questa messinscena è incantatoriamente visivo, malinconicamente detto, teneramente mimato. Piazza del Duomo è per tre quarti del suo perimetro congegnata come reggia, bosco, radura selvatica e appendice ai tinto lago, con gli spettatori roteanti su se stessi. La larghezza di impatto dà respiro a una rappresentazione non sacra ma fuori dai canoni, sfuggente e tentatoria. Il re impersonato supino dal corrusco Giulio Brogi (destino vuole che il bravo attore stia superando sul serio alcuni fastidi di salute) ha una maschera di cera tutt'una col contagio per cui altrove lo chiamano Re Magagnato, mentre qui è Pescatore tante che s'imbatte nell'incontaminato Parsifal nel corso di una battuta di pesca: vorrebbe conservare il suo opaco potere, ma infine svelerà e cederà all'altro il Graal. Il solitario e impulsivo nuovo eletto ha la grazia quasi sempre senza retorica di Vincenzo Bocciarelli, fiammante ragazzo che all'inizio si misura eticamente con lo statico ma affascinato eremita di Riccardo Garrone. Lei, la donna dannatrice e poi però solerte sia nei riguardi del regnante in quarantena che del giovane arrivato, è Ludovica Tinghi. Poi c'è un mago torbido ben reso da Piero Carette, e un giullare cui ben si presta Francesco Meoni.
Zanussi ha plasmato il dritto e il rovescio di un cosmo la cui delicatezza è data da acerbe e belle voci da cantoria e, magnifica immagine, dal prodigarsi attorno a Parsifal di ancelle di conio fiammingo. Poi la circolare struttura di Aldo Buti (anche costumista) dà luogo a un lampo abbacinante che sul finale, dall interno del Duomo, è il segno del passaggio delle consegne. Traduzione di Annuska Palme Sanavio.
RODOLFO DI GIAMMARCO, La Repubblica 21 luglio 1996




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