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Sipario - La recensione di Mauro Martinelli
 

Teatro di carattere

La Festa del Teatro di San Miniato è un festival atipico nel panorama estivo italiano. Per la particolare identità dei contenuti - più che un teatro religioso, si può meglio definire questa esperienza come un viaggio attorno al tema del sacro, per l'importanza della tradizione - il festival, nato nel 1947, ha compiuto questa estate il suo 57° compleanno - e per il valore delle direzioni che lo hanno negli anni accompagnato.
STORIA E ANTISTORIA
Tra i suoi creatori, e a cavallo dei primi trent'anni più volte impegnato nella regia, ricordiamo Orazio Costa, ma tra le direzioni che hanno dato lustro al festival sono da ricordare anche G. Strehler (con Assassinio nella cattedrale di T. S. Eliot, anno 1948), L. Squarzina, P. Giuranna, V. Zurlini, G. Bosetti e, negli anni più recenti, G. Sbragia, M. Scaccia, K. Zanussi e U. Gregoretti. Tema storico e sviluppo antistorico, quelli proposti quest'anno in prima mondiale con lo spettacolo Bartolomeo de Las Casas, tratto dall'omonimo romanzo di Reinhold Schneider. Storico, con la "s" maiuscola, perché il racconto della tensione dell'uomo a una risposta che soddisfi almeno in parte la sua sete di perché costituisce un topos irrinunciabile del teatro di ogni tempo. Antistorico perché, in ambito teatrale, una disputa dottrinale (tale è l'epilogo della vicenda, che occupa gran parte del secondo atto) tra potere temporale e potere spirituale, preparata con meticolosità da lunghi dialoghi a due nel primo atto, si astrae degli imperanti canoni contemporanei (ritmo, brillantezza, imprevisto, sesso sbirciato o evocato) per rifocillare lo spirito dello spettatore con un cibo prezioso ma di difficile digeribilità. D'altra parte, essendo a San Miniato e non in qualche festival di teatro di ricerca, questa esegetica fedeltà alla tradizione rappresenta una scelta di fondo difficile ed onorata. Il testo di Schneider, ridotto per la scena da Roberto Mussapi con un abile lavoro di sottrazione, che ha mantenuto il nucleo della vicenda facilitandone sia la fruibilità che la messa in scena, è incentrato su Bartolomeo de Las Casas che, prima di diventare frate dell'ordine domenicano, accompagnò Colombo nella sua seconda traversata per curare gli interessi della propria famiglia nelle Indie Occidentali, ma dal 1610 vestì il saio, dimenticò gli oneri del possidente e si schierò con lucida convinzione dalla parte degli indigeni oppressi dal nuovo potere di Spagna, divenendo così agli occhi del mondo il "padre degli indios". Bartolomeo appare così in apertura di spettacolo, ormai settantenne, mentre affronta una tempesta nel viaggio che lo sta riportando in Spagna, e durante il quale conosce Bernardino de Leres, un altro viaggiatore che sta tornando a Valladolid per godersi le ricchezze accumulate nel nuovo mondo. Il dialogo tra i due è lo scambio di sensazioni che può capitare tra due perfetti sconosciuti nel bel mezzo di una tempesta oceanica, dopo aver vissuto una lunga parte della propria vita lontani dalle relative famiglie: ora serrato, ora discorsivo, con lunghi monologhi a descrivere la realtà degli indigeni oppressi e tratteggiare i germi di una malattia che porterà presto Bernardino al termine del suo viaggio terreno. Così si prepara la disputa tra Bartolomeo e Sepùlveda, tra il campione della tolleranza e del rispetto ed il giureconsulto realista che teorizza, in un suo libello, la superiorità dell'occidente sul "buon selvaggio", degno di pari attenzione solo quando sarà completamente domato e sottoposto al giogo dei conquistadores. Il certamen filosofico occupa tutto il secondo atto, alla presenza paterna di un Carlo V che ascolta senza scomporsi le ragioni dell'essere e quelle dell'avere e che alla fine, contro ogni senso dello stato, di cui è tuttavia il più augusto rappresentante, si schiera dalla parte dell'apostolo degli oppressi. Pur nella sua ponderosa e talora manicheistica investigazione dell'animo umano, lo spettacolo decolla fin dall'inizio e mantiene alto il tono per tutta la durata della rappresentazione, favorito da una scenografia molto essenziale e funzionale di Daniele Spisa, che con uno schermo elettronico ed un portico stilizzato riesce a sintetizzare con poche
astrazioni il ponte di una nave, l'interno di una canonica ed il palazzo del re. La regia di Giovanni Maria Tenti, in coerenza con la riduzione per la scena, tende ad alleggerire, laddove possibile, i gravami del testo, ad eliminare facili simbolismi e costruire un suggestivo crescendo drammatico, ottimamente adiuvato da una affiatata compagnia di attori tra i quali spicca, per sensibilità ed abnegazione, il Bartolomeo di Franco Graziosi.

Mauro Martinelli, Sipario, Milano, novembre 2003




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