La recensione
Un tempo carico d'eternità
La poesia di Thomas Stearns Eliot ha trovato nella chiesa di San Francesco in San Miniato il suo luogo naturale di manifestazione. Voglio dire che il cupo muoversi delle immagini, le crudezze verbali, lo spiegato lirismo, la purezza degli accenti, le fosche allusioni, l'impeto così eliotiano della discussione angosciata (scambiata da alcuni per indugio dialettico), il senso continuo ed incombente del sangue e della morte, il dibattersi del desiderio di salvezza, l'apparire ricorrente di un motivo di purificazione, il persistere sul mondo di apparizioni e di limiti tentanti, le ragioni del mondo, le ragioni di Dio, tutto questo è apparso con la forza rigorosa delle cose compiute.
A San Miniato, in questo luogo fra il ciclo e la terra, dove distanza e presenza sembrano appartenere allo stesso mistero, e il tremolìo della luce svanente sui declivi appare carico di tempo e di rassegnazione, mi è parso naturale trovare nello spettacolo serale una continuazione di quella enorme attesa che è il silenzio del luogo. E mi aiutavano a capire la singolare atmosfera che si era formata nell'ambiente questi due versi dello stesso Eliot:
Noi non siamo sconfitti
Perché abbiamo continuato a tentare.
Il senso di attesa di un avvenimento estremo attorno alle voragini che si aprono nel battere verbale che spinge alla conclusione Assassinio nella Cattedrale, si allaccia molto bene al motivo di «continuazione» che i due versi citati esprimono. È quella forza che permette al protagonista, l'arcivescovo Tommaso Becket di respingere tutti i tentatori, e soprattutto il quarto che gli propone di compiere «ciò che è giusto per un cattivo fine». Cioè la propria esaltazione. Il superamento della tentazione della santità costituisce uno dei momenti più tesi, fermi e drammatici di questa nudissima vicenda, commentato dal coro delle povere, comuni donne di Canterbury, dai loro lamenti per la vita e per la morte. La vicenda si svolge a Canterbury il 2 dicembre 1170. L'arcivescovo Tommaso Becket ritorna in patria dopo sette anni di esilio impostigli dal re Enrico V. Ma egli ritorna non per ripetere gli errori del passato, sibbene per difendere quei valori assoluti che la fede impone. Al momento del ritorno gravi turbamenti lo attaccano sotto forma di tentatori mentre nel mondo, nei poveri «che non possono agire ma soltanto aspettare», si gonfia, si muove e freme il senso di un imminente avvenimento che romperà tutti i dolori riconoscibili per distruggerli con un dolore sconfinato che gli umili fatti della realtà quotidiana non possono contenere. E il coro, sulla fine, griderà: «Noi tremiamo dell'ingiustizia degli uomini meno che della giustizia di Dio».
Mentre Tommaso respinge i tre primi tentatori che gli portano la voce del mondo, il suo crescente turbamento lo porta all'incontro con il tentatore inaspettato, quello che pronuncia parole alte ma, come il tormentato arcivescovo capisce, per un fine peccaminoso di supremazia. La santità non è un calcolo, e Tommaso arriverà alla morte violenta come a un vero inevitabile atto di vita. Intanto sul mondo continua l'incombente senso della sconfitta ma anche il perpetuo «tentare» degli uomini. E la vita quotidiana risponde dell'eternità.
Sarebbe qui fuori di posto avventurarsi in un esame approfondito della complessissima opera di Eliot, una delle maggiori figure della letteratura contemporanea. Le poche righe scritte più sopra possono indicare su quale terreno minato ci si inoltrerebbe. Possiamo soltanto dire che la poesia eliotiana vive su una linea spirituale che ha toccato, fra l'altro, i nomi di Dante, Shakespeare, Boudelaire, Laforgue e, in genere, il mondo elisabettiano. La pluralità degli interessi che muovono la sua poesia e la sua saggistica, il tentativo di andare «al di là della poesia come l'ultimo Beethoven è andato al di là della musica» sono sostenuti da una capacità così larga di indagine nel tempo e nello spazio degli uomini, che ormai non sorprende più trovare nelle sue immagini la dattilografa che batte sui tasti e, subito, una citazione dai sacri testi indiani o buddistici. Ma sul significato di Eliot nella cultura contemporanea si potrà parlare in un altro articolo.
E andiamo allo spettacolo svoltosi per iniziativa dell'Istituto del Dramma Popolare che ha sede in San Miniato stesso.
Nella vasta chiesa di San Francesco le sottilissime e ardue allusioni della poesìa di Eliot sono state rese con un rigore e una castità espressiva esemplari. La bella vetrata che faceva da sfondo al vastissimo palco, opera di Gianni Ratto del quale va sottolineato il coerente cammino di realizzazioni sceniche compiuto dal '45 a oggi, era il solo segno di colore nel prevalente grigio pietra dell'ambiente. In esso Giorgio Strehler ha, direi, deposto i valori della poesia di Eliot facendoli risaltare con una attentissima partecipazione ai valori ritmici del testo e, più ancora, ai valori ritmici interiori. C'erano tre punti sui quali appoggiarsi: la diatriba attorno al vescovo, le voci dei sacerdoti, le voci delle donne. Questi elementi Strehler li ha usati con lo stesso spirito dei bellissimi canti gregoriani che misuratamente nascevano sul fondo della chiesa. E bisogna dare atto a Strehler del carattere di questa prova, della misura del suo spirito. Questo contro le affermazioni (ma non bisognerebbe rilevarle) di coloro che dicono essere le regie di Strehler balletti. Esiste gente che quando parla di teatro non sa proprio di cosa parli.
Gianni Santuccio è stato il protagonista arcivescovo. Questo nostro giovane attore dimostra di spettacolo in spettacolo di quale bella natura siano le sue aspirazioni. Ha dato alla figura di Tommaso quel rilievo, di passo, di sguardo, di dizione, che le parole pronunciate esigevano. Niente strideva tra persona e parola. Ho notato, per esempio, l'uso di movimenti di labbra o di muscoli facciali, durante i silenzi: efficacissimi. Una bella prova.
Un risultato bellissimo ha raggiunto il coro di donne formato dalla Brignone, dalla Albertini, dalla Angeleri, che Strehler ha fatto parlare quasi sempre contemporaneamente, con pochissimi a solo. Certi crescendi drammatici o lirici sono stati stupendi. Ne va data lode a tutte e tre le attrici e particolarmente a Edda Albertini. Molto a posto e seriamente impegnati anche tutti gli altri attori nelle loro ardue parti. D'Angelo, Farese, Feliciani, Battistella, Moretti, Giardini, Bertini hanno affrontato le difficoltà del testo con risultati notevoli, individuali e d'insieme. Belli anche i costumi di Bissietta. Una serata dunque da ricordare.
ROBERTO REBORA, L'Umanità , Milano, 25 Agosto 1948
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