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Il Corriere dell'Umbria - La recensione di Francesco Tei
 

Il Messico di allora come l'Est oggi
Giunta alla sua 45° edizione, la Festa del Teatro di San Miniato contravviene - per una volta - al suo statuto, che le imporrebbe di presentare solo novità assolute (o almeno per l'Italia), e fa un balzo all'indietro, nel passato, di ben trentasei anni, ripescando uno dei lavori che segnarono uno tra i momenti più felici, e fortunati, della sua storia: Il potere e la gloria, cioè, da Graham Greene, nell'adattamento di Denis Cannan e Pierre Bost.
La rappresentazione de Il potere e la gloria, a San Miniato, in uno spazio dichiaratamente «cattolico» come la Festa del Teatro, fu - nel 1955 - un grande successo di emozione, ma anche di scandalo, per la provocatorietà di una storia che testimonia la fede anomala e per nulla «allineata», inquieta e faticosamente conquistata e sofferta di un autore come Graham Greene (scomparso quest'anno): il cui libro, non per nulla, finì fulmineamte all'Indice, alla sua uscita, cinquant'anni fa, nel 1941.
Ebbene, nella storica Piazza del Duomo di San Miniato, teatro - come sempre - dello spettacolo, si è toccato, molto chiaramente, con mano come il peso e la presa ideale, e coinvolgente, di certi temi, e certe situazioni, cambino decisamente con il passare degli anni, e come oggi non faccia più scalpore, e non colpisca quasi più gli animi degli spettatori la vicenda del prete indegno, bevitore e codardo, padre di una bambina, rimasto però, nonostante questo (o forse proprio per questo) l'unico uomo di Dio in un paese - il Messico - dove la religione è stata cancellata a forza, le chiese distrutte e i preti costretti a fuggire o uccisi. E pensare che ci sarebbe, limpido, anche un aggancio - possibile - con l'attualità, nell'immagine di un cristianesimo che, sotterraneamente, continua a vivere, non muore, ma viene come tenuto nascosto e custodito nell'animo della gente, pronto però a riemergere, anche nei suoi segni visibili, appena la persecuzione si allenta (per un attimo o per sempre).
Cosi il Messico dell'anteguerra può diventare, in prospettiva, l'Est europeo di oggi, con quei calici, quei paramenti e quei sacerdoti, che - incredibilmente - ritornano fuori, in mezzo al fervore toccante e profondo di un popolo, dopo che la Chiesa, nel silenzio, nell'apparente passività e nella sofferenza ha vinto, quasi senza accorgersene, il duello violento che l'opponeva all'ideologia.
Ma neppure questo ha funzionato, né è servito a salvare questa seconda, odierna messa in scena, pure - professionalmente - bene allestita, e con un sicuro senso di dignità artistica, Giancarlo Sbragia (regista, oltre che protagonista, naturalmente); ma forse, azzardiamo, la colpa è anche della trasposizione per il teatro di Cannan e Bost, tanto abile e ben costruita - e pure su clichè narrativi - che non sono più quelli della drammaturgia di oggi, più incalzante e nervosa.
Inoltre, questa «traduzione» per il teatro - che per noi ha un sapore curioso, quasi da sceneggiato televisivo Anni Sessanta, non rende affatto giustizia ai climi, interiori ed esteriori, esacerbati ed aspri, del romanzo di Greene, e alla sua spasmodica intensità e sofferta tensione di scrittura.
Certo, la messa in scena di Giancarlo Sbragia non ha fatto molto per modernizzare (se pure fosse stato possibile) i ritmi e le intonazioni del dramma, cadendo anche, di suo - almeno in qualche personaggio - nel bozzettismo, nel luogo comune più usuale e teatralmente più tradizionale. Sopra lo spazio scenico girevole di Giovanni Polidori (scenografo anche dell'edizione 55) ha comunque dato discreta, o buona prova di sé, un folto gruppo di attori, dominati - naturalmente - da Giancarlo Sbragia: che al suo Prete ha dato un aspetto debole, svanito, risibile e drammaticamente ridicolo. Accanto a lui, fra l'altro, il figlio Mattia, nel ruolo dell'inflessibile e impassibile persecutore, il Tenente.
FRANCESCO TEI, Corriere dell'Umbria, 20 luglio 1991




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