Un mancato suicidio
Ventidue anni di fedeltà a un teatro non di puro consumo meriterebbero qualcosa di più dell'esigua sovvenzione che l'Istituto del Dramma Popolare riceve ogni estate per presentare, nello scenario di verde e di pietra di una delle più stupende cittadine toscane, testi moderni ricchi di inquietudini spirituali e di fermenti cristiani, al di fuori di un rigido confessionalismo. Ma don Giancarlo Ruggini, anche se l'aiuto dello Stato s'assottiglia, non se ne lamenta: «Siamo arrivati a un punto — dice non senza orgoglio — che è più difficile smettere che continuare». L'anno scorso poi, ci si mise di mezzo anche l'inclemenza del tempo. Appunto per sfuggire ai furiosi temporali di agosto, la XXII edizione della «Festa» si è inaugurata stasera con notevole anticipo sulla data consueta.
Proprio la scarsezza dei mezzi e le difficoltà di allargare la ricerca lungo sentieri imbattuti hanno indotto quest'anno l'Istituto a rompere un'altra tradizione e a ripiegare su un'opera non inedita per l'Italia, anche se pochissimo nota: Querela contro ignoto del francese Georges Neveux, rappresentata soltanto nel lontano 1947 dal Piccolo Teatro di Milano con la regia di Mario Landi.
Ma si è ritenuto che i problemi dibattuti in essa, e soprattutto quello del «silenzio di Dio», fossero gli stessi che, per fare un esempio, ancora oggi Ingmar Bergman affronta nei suoi film. Vediamo perché anche l'accostamento al regista svedese e ad altri autori contemporanei vada oltre, a nostro avviso, a quelli che possono essere stati gli intendimenti di Neveux.
L'attacco della commedia, e non soltanto quello, è così tipico di una letteratura del nostro tempo, da consentire che si citino alla rinfusa Kafka e Giraudoux, Pirandello e addirittura Ugo Betti. Ma non bisogna dimenticare la grande tradizione del teatro e soprattutto del romanzo russo dell'Ottocento, tanto più che il Neveux è venuto al mondo quasi settantanni fa in Ucraina e l'azione di questa Plainte contre inconnu si colloca nel 1910 in una cittadina di provincia russa che potrebbe essere benissimo la nativa Poltava. Ed ecco una sera quattro persone irrompere in casa del procuratore generale di questa cittadina: sono risoluti a togliersi la vita, ma prima vogliono sporgere querela contro Dio che, essi affermano, li ha resi infelici senza nessuna colpa da parte loro.
I motivi addotti dai singoli querelanti, ai quali presto s'uniscono una ragazza di strada e una vecchia che ha perso il nipotino, sembrano piuttosto labili: due sposi, dopo una separazione di due anni, non si riconoscono più; un maestro di piano, arricchitosi con una vincita alla lotteria, non riesce a dimenticare la sua fame che l'ha attanagliato per molti anni e che ancora attanaglia milioni di suoi simili; un ricco assicuratore è convinto di destare intorno a sé soltanto ripugnanza e tristezza. Al procuratore pare di sognare. Come si può essere infelici, se lui è un esempio vivente dell'umana felicità?
I suoi ospiti però hanno buon gioco a dimostrargli che non è vero, che lui stesso non è felice: si guardi allo specchio, consideri la sua solitudine, ripercorra la sua vita inutile. Tanto dicono che il porevaccio si convince. E quando gli altri rinunciano alla querela e al suicidio rendendosi conto che proprio le loro sofferenze arricchiscono e danno un senso alla loro vita (ma qui va detto che la commedia annaspa non poco nella rugiadosa e vetusta vicenda della prostituta che si riscatta nella maternità), il procuratore si ritrova affatto vuoto e, paradossalmente, sarà il solo ad uccidersi.
Veramente, del suicidio non vi è cenno nel finale di questa edizione che José Quaglio, già fra gli interpreti della prima rappresentazione francese del 1946 e poi regista di una ripresa parigina del 1958, ha diretto su una nuova versione di Pier Benedetto Bertoli. Ed è un errore perché il mancato rovesciamento della situazione, teatralmente efficace, disperde quell'aura ironica e grottesca (non si scordi che il Neveux proviene dalle file del surrealismo) che eviterebbe alla commedia cadute di gusto e le impedirebbe di invecchiare nelle secche dell'esistenzialismo.
Ma il regista, salvo il mutato finale, ha preferito attenersi ad una lettura soltanto diligente del testo, dimenticandosi, insieme allo scenografo e costumista Titus Vossberg, di certi fantastici personaggi di Gogol o di Dostoievski che avrebbero potuto offrirgli eccellenti spunti per Sandro Merli, Scilla Gabel, Gina Sammarco, Alessandro Sperlì, che, con la Girola e la Salata, con il Bellei e il Cirino, sono gli interpreti corretti, ma non sempre persuasi e non sempre persuasivi, dello spettacolo. Pubblico folto e partecipe, prodigo di applausi, anche a scena aperta, per tutti gli attori, per il regista e i suoi collaboratori.
Alberto Blandi, La Stampa, Torino, 10 Luglio 1968
|