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Messaggero Veneto - La recensione di Mario Bernardi Guardi
 

Bernanos e il dramma della fede
«Non sono democratico né repubblicano, né uomo di sinistra né sono di destra; ma allora — direte voi — chi sei? Sono un cristiano. Se non lo fossi di nascita (come lo è, malgrado tutto, la maggior parte dei francesi), lo diventerei di corsa, oggi stesso. Perché? Mio Dio, per una ragione molto semplice, alla portata di chiunque, cioè che questo mondo sta per saltare in aria. Nessuno può essere certo dopo l'esplosione, sempre che sopravviva, di avere ancora uno stato civile, una famiglia, una patria. Io avrò invece un nome: quello di cristiano. Perché quando il fumo dell'esplosione si sarà diradato noi potremo raccogliere a una a una nelle ceneri tutte le verità, e non sarà una cosa complicata, ne sono sicuro. Con queste ricostruiremo il mondo». Tale dichiarazione di fede di Bernanos risale al 1935 ed è un'affermazione netta, decisa, confortante, di certezza cattolica: la testimonianza di una persuasione che non verrà mai meno, laddove le ideologie si saranno rivelati come un patrimonio spirituale effimero, contraddittorio, di breve durata, destinato a esaurirsi rapidamente, allorché l'impatto con la realtà abbia chiesto brucianti verifiche, un si si, no no doloroso e vibrante, capace di disperdere con furia ogni obliqua tentazione al compromesso. Il cattolicesimo è in Bernanos consapevolezza della crisi, acuta visione dei segni dei tempi, intuizione di quelli a venire (che saranno ancor più terribili, ancor più densi del fumo di Satana), angosciosa contemplazione della decadenza dell'Occidente e risposta dura, pronta, ferma, atroce e disperata, se necessario, a chi si compiace di equilibri, di travestimenti, di transazioni: Bernanos va avanti, picchiando forte, con gagliarda fierezza, in nome di una virile religiosità controrivoluzionaria e antiborghese.
È vero: rivisitare il destino politico di quest'uomo, a 41 anni dalla scomparsa, è impresa difficile: i conti sembrano non tornare, vecchie scelte di trincea pesano ancora, la spinta a processare e a ripudiare almeno una parte della biografìa di Bernanos è possente. Perché l'artista — come ogni innamorato della verità, a dispetto di qualsiasi logica storica — fu segno di contraddizione. Fu uno di quelli che suscitava scandalo, sostenendo l'esigenza di un franco e sanguigno odio contro l'apatia. Intellettuale di destra, monarchico, cattolico, tradizionalista, non risparmiò sferzate alla miopia delle destre, né all'egoismo dell'Action francaise dove era nato politicamente, né alla borghesia benpensante che inchiodò alle sue tremende responsabilità storiche di distruttrice della tradizione cristiana e popolare della Francia, di madre del capitalismo, di ancella di ogni delirio progressista, di patrona di ogni sorta di infamia, di custode propagandista di menzogne, di abile e inesausta contraffattrice dell'idea di ordine, di pavida, ipocrita, spietata protettrice di interessi e fomentatrice di corruzione. Nel celebre saggio La grande paura dei benpensanti — che è del 1931 — il furore di Bernanos si scatena e a proposito della borghesia egli sentenzia: «Essa ha screditato il rischio in politica, per paura di essere obbligata a correrne qualcuno e ha dato il nome di saggezza a una tattica puerile e disonesta: puerile per le sue provocazioni verbali, disonesta per le sue trattative e alleanze segrete, che sono d'altronde la favola e il ludibrio dei suoi avversari». Doveva dire tutto quello che sentiva Bernanos, non nascondere e non nascondersi nulla: ed ecco che l'anticomunista, l'antiradicale, l'antidemocratico, l'intellettuale per molti versi vicino ai temi e alle rabbie fasciste del Drieu, dei Celine, dei Brasillach, sposa, durante la guerra di Spagna e dopo un iniziale atteggiamento filofalangista, la causa dell'antifascismo più fiero e scrive un libro come I grandi cimiteri sotto la luna (1938) per gridare con veemenza contro le stragi compiute dai falangisti a Palma di Maiorca, per bollare con il fuoco i preti pronti a benedire e ad assolvere chiunque lottasse contro i rossi. Era fatto così Bernanos: non dava tregua — lui, cattolico-belva, figlio di Drumont— a chiunque facesse di un principio lo sgabello di interessi e di paure: se chi portava sulle proprie insegne Cristo non era degno, meglio lo scandalo di scegliere la parte di chi lo bestemmiava. Salvo poi soffrirne; scegliere una più accorata solitudine, e solitario morire, lasciandoci in eredità una pagina, una sola pagina, di quella Vita di Cristo cui pensava da sempre. Non era facile portare sulla scena un temperamento del genere, sforzandosi di lasciare intatta la drammatica intensità di un messaggio che — e non retoricamente — chiede al cristiano le lacrime e il sangue di una piena imitazione di Cristo. Ma l'Istituto del dramma popolare dì San Miniato — che in passato ha rappresentato il Bernanos di ---Sotto il sole di Satana--- dei Dialoghi delle carmelitane — è abituato da anni ad azzardare letture scomode del Vangelo. Seminando, va detto, non poche perplessità: perché, talvolta, lo scandalo si manifesta nel senso di un potenziamento della proposta cristiana contro ogni annacquamento farisaico; in altre circostanze, invece, il turbamento e il malessere che fanno seguito a una conclusione non edificante di un dramma spirituale, di una situazione umana cruciale, restano come chiusi, quasi che, dopo il necessario scotimento dello spirito, tutto si afflosciasse nella desolazione esistenziale, nella morte di Dio.
La festa del teatro di quest'anno — giunta alla quarantatreesimo edizione — ha scelto un'altra volta Bernanos e ci ha offerto la riduzione di un romanzo poco noto uscito nel 1927: L'impostura, adattato per la scena da Pascal Bonitzer e Gerard Wajcman, con la regia ai Brigitte Jacques (versione italiana di Luigi Lunari). Già rappresentata a Parigi con buon successo nel marzo di quest'anno, L'impostura è una classica storia bernanossiana. Protagonista è l'abate Cénabre, canonico, scrittore, teologo di grande prestigio: ha perduto la fede, soffre in profondità nell'anima lo schianto del vuoto che dilaga, cerca di comunicare al vecchio maestro Chevance l'atrocità della sua condizione. Spiritualmente è un apostata, ma la negazione di Dio gli dà solo la forza di un sarcasmo amaro: e il suicidio lo tenta. Deve uscire dall'impostura. Ma Chevance, la cui interiore roccaforte è fatta di un'umiltà docile ai disegni di Dio e aperta alle infinite promesse della Grazia, non può aiutare Chénabre. Cosa fare contro il suo sacrilego ateismo? Contro quel gelo dell'anima, quell'inferno interiore fatto di deserti più che di fiamma, che si rifiuta alla confessione e alla benedizione? Forse Chénabre — che non crede più — dovrebbe fingere che per lui è un bene accettare comunque un Dio tanto lontano da apparire pura astrazione? Chénabre è solo. E allora l'impostura diventa abito: se non è possibile strapparsela di dosso, continueremo a rivestircene, preti solo perché indossiamo la tonaca, anche se Dio è morto in noi. Del resto, chi ha il coraggio di sciogliere le imposture che ci avviluppano come ragnatele? Non Chevance al quale, dopo l'incontro con Chénabre, la fede di un tempo, incorrotta, pulita, disponibile, si rivela ormai come sprovveduta di fronte alle tempeste che possono abbattersi sull'uomo; non i piccoli uomini — ecclesiatici, giornalisti, affaristi — che quotidianamente tradiscono e vengono traditi, mentono e sono ingannati, professano l'amore di Dio ma sono incapaci di amare il prossimo e di uscire dal personale delirio di un egoismo ferito. Forse la speranza — l'unica — la offre una ragazza, Chantal, la pura Chantal, forte della sua fede ingenua, del suo cristianesimo privo di tortuosità.
Ma che resterà di lei, quando incomincerà a frequentare il gelido inferno di Chénabre? Gli uomini hanno bisogno di Dio, sembra dirci Bernanos, ma Dio li strazia perché siano all'altezza di incontrarsi con lui. Debbono uscire dall'impostura, imparando prima a riconoscerla come falso amore, poi rinnegandosi nel rinnegarla. Perché nuda è la verità. non indossa neppure la tonaca dei sacerdoti. E' dentro piena e feconda, nuda di fuori. Il contrario di Chénabre, che, proprio per questo perde Dio: non resiste alla prova, non resiste alla propria nudità.
Un Bernanos difficile, questo de L'impostura. Ma Bernanos lo è sempre, invoca Dio provocando. Sulla scena sanminiatese, queste sue invocazioniprovocazioni si sono un po' irrigidite: il Chénabre di Roberto Herlitzka, lo Chevance di Antonio Pierfederici sono apparsi poco persuasivi. Meglio certe caratterizzazioni — anche se si esauriscono in se stesse — come quella di Mario Maranzana, nei panni del barbone Framboise. Ma ci voleva qualcosa di più. Per far sentire a un pubblico disorientato che la cifra di Bernanos non è né il Niente sartriano né la morte di Dio dei nuovi teologi, ma lo scandalo della crocifissione.
MARIO BERNARDI GUARDI, Messaggero Veneto 9 agosto 1989




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