La recensione
Il cammino della coscienza
Con qualche anticipo sulla data degli anni passati, l'Istituto del Dramma Popolare ha ieri sera rappresentato con vivissimo successo, nella stupenda cornice della piazza del Duomo quasi interamente nascosta dall'anfiteatro metallico costruito per l'occasione, l'ultimo dramma di Thomas Stearns Eliot, The Elder Statesman, il cui titolo, nella versione italiana di Desideria Pasolini è diventato Il grande statista.
Dicono che la lezione italiana sia stata approvata dallo stesso Eliot, ed è certo che la traduzione letterale della parola «elder» (anziano) non risponderebbe con esattezza al senso del titolo originale. Noi l'avremmo tuttavia preferita, anche a costo di lasciare che lo spettatore si affaticasse a intendere di quale anzianità si tratti. Nell'aggettivo adottato da Eliot è infatti implicita l'idea di un primo grado che suscita immagini malinconiche. L' «anziano» statista non ha raggiunto la gloria, ma soltanto la giubilazione ed è messo in disparte quando si sentirebbe ancora in grado di servire il proprio paese. Caso mai, piuttosto che grande, è celebre. E infatti Lord Claverton, protagonista del dramma, qualora si volesse dargli una configurazione contemporanea, non farebbe pensare a Churchill ma al suo pupillo Anthony Eden. Anche Claverton, apparentemente, è stato messo da parte per motivi di salute, un infarto dal quale non si riprenderà mai più.
È chiaro che riferimenti di questo genere hanno importanza relativa. La loro occasionalità, del resto, è confermata dal fatto che lo scorso anno, allorché il dramma di Eliot fu presentato per la prima volta al Festival di Edimburgo, l'attore Paul Roger adottò una truccatura che lo faceva somigliare a MacMillan. D'altra parte, mentre i cronisti si chiedevano il reale motivo di quella rassomiglianza. aveva inizio la ricerca di riferimenti più solidi circa la origine, o meglio la qualità di quei tre atti nuovi. Taluno si affrettò a richiamarsi al dramma greco (tema quasi obbligato da quando in Assassinio netta cattedrale non si volle vedere un'opera decadente, ma un saggio di teatro che sembrava risalire addirittura ai predecessori di Eschilo), mentre altri, riferendosi a un ormai famoso scritto di Eliot, cercavano piuttosto un aggancio con il teatro elisabettiano.
Ciò è bastato a far sì che da una parte l'amore di Monica e Charles, i due giovani che in The Elder Statesman assumono fondamentale rilievo, fosse paragonato (non senza sforzo) a quello di Romeo e Giulietta, mentre dall'altro si è rievocata la Orestiade e, forse con maggiore fondamento, lo Edipo a Colono. Claverton, il quale riconsidera le proprie colpe e prima di morire trova pacificazione nell'amore cui lo fa assistere sua figlia (per la quale l'orgoglio tipico dei Claverton ha cessato di avere senso), sarebbe appunto Edipo. E in Monica rivivrebbe una novella Antigone.
È possibile. Tuttavia a noi sembra che simili riferimenti, anche quando sia lo stesso Eliot ad avvalorarli, non debbano essere presi alla lettera. Anzi, nel caso dell'Elder Statesman ci sembra che una parentela sostanziale si debba ricercare non tanto in Sofocle e in Shakespeare quanto in Ibsen, ossia nel drammaturgo che esercitò così notevole influsso su Bernard Shaw e al quale anche Eliot non è rimasto insensibile.
Si avvertono infatti nel Grande statista un cammino della coscienza, una indagine a ritroso e nello stesso tempo un bisogno di protendersi in avanti (bisogno che coincide con una serena acccttazione della morte) i quali senza dubbio rispondono alla essenza religiosa di Eliot ma di cui nell'opera di Ibsen troviamo esempi insigni. Lord Claverton appartiene alla categoria delle persone rispettabili cui già appartennero la
signora Alving e la stessa Rebecca, per fare due soli esempi. Ma, slmilmente allo loro, anche la rispettabilità di Claverton è stata acquistata a prezzo di compromessi e transazioni indispensabili alla sua ascesa. A Claverton occorrerà l'infarto, la necessità di cure che per la prima volta lo liberano da ogni impegno politico e mondano, per capire l'importanza delle colpe (se non proprio dei delitti) commesse in gioventù. E sono colpe cui Eliot finisce per dare una consistenza corporea. Le vittime di Claverton, se così possiamo chiamarle, si presentano ad una ad una non diversamente da come accade, per fare un altro esempio, ai «creditori» del Don Giovanni di Molière. Dapprima ritorna l'amico, il compagno di giovinezza che Claverton aveva spinto verso modi di vita inadatti alle sue possibilità effettive e del quale si era liberato non appena, a cagione di quei modi, l'amico era incorso nei rigori della legge. Poi è la volta di una donna, Mrs. Carghill, ex attrice del varietà, amante riamata di Claverton che tuttavia rinunziò a lei non appena il padre gli mostrò la convenienza di un matrimonio importante (dal quale la carriera dello statista fu di fatto facilitata). E finalmente, a mostrare a Claverton quali inconvenienti produca una ascendenza come la sua, appare suo figlio Michael, nel quale, e questa volta non a torto, si è voluto vedere una personificazione moderna del «villain» elisabettiano. È chiaro che Michael, ribelle al padre, finirà per trovarsi d'accordo con l'amico di giovinezza e con la ex amante di lui. I quali, e qui si riconosce lo spirito di Eliot, apparentemente non sono per nulla sconfitti; hanno cioè raggiunto una certa indipendenza sociale. Per nessuno di essi tuttavia, il successo e la sicurezza materiale hanno compensato il guasto che Claverton contribuì a operare nelle loro anime.
Non è nemmeno da dire che Claverton, per un malinteso mitridatismo, intenda assumersi responsabilità che non gli competono. Egli, orgoglioso fino a quel momento, è tuttavia spinto dalla incontenibile necessità di confessare alla figlia e a Charles, fidanzato di lei, le proprie colpe prima di allora mai confessate a nessuno.
Sono i due giovani a mostrargli che il vero amore sta proprio in questo, nella capacità di rivelare alla persona amata ciò che talvolta non diremmo a noi stessi. Si spiega così che la confessione di Claverton sia in realtà il suo ultimo atto vitale. E si capisce che in un dramma come questo, accoratamente elegiaco, la morte diventi simbolica.
Il grande statista, per i suoi valori ideologici e spirituali oltre che per la sua importanza letteraria, si inserisce di pieno diritto nell'azione intrapresa tredici anni or sono e portata avanti con nobile tenacia dall'Istituto del Dramma Popolare. Il suo allestimento, promosso con la regìa di Luigi Squarzina e la collaborazione preziosa dello scenografo Luciano Damiani, è tra i più belli e convincenti cui ci sia stato dato di assistere in questi ultimi anni. Creato un anfiteatro che ha consentito agli attori di recitare il primo atto del dramma quasi a contatto con il pubblico, nel secondo e nel terzo atto il fondo della scena si è spalancato sulla prospettiva naturale di uno stupendo giardino, il quale ha permesso al regista una insolita ricchezza di movimenti.
Ed elegante, come si addice alla natura dei personaggi e alle loro diverse significazioni, è stata la recitazione dei singoli attori. Ivo Garrani ha dato una bellissima prova di maturità attribuendo a Claverton una ferma compostezza evitando i pericoli della maniera. Laura Adani, che era Mrs. Carghill, ne ha espresso con felicissima evidenza e con molto gusto i moti sottili (una sottigliezza che per altro non esclude la prepotenza), e la esordiente Giovanna Pellizzi ha affrontato con pudore ma senza sbandamenti il difficile personaggio di Monica, cui qualche acerbità (tutto sommato sicura) ha aggiunto una accattivante grazia naturale. Bene, come sempre, Giusi Dandolo nelle vesti di una seccante direttrice di casa di riposo. E benissimo Gianrico Tedeschi, il quale impersonava con la concretezza a lui propria, il compagno degli anni giovanili. In quanto ai tipi di Charles e. di Michael, essi hanno dato modo a Franco Graziosi e a Corrado Pani di confermare la loro duttilità e prontezza. Entrambi si sono rivelati eccellenti. Pubblico affollatissimo, applausi reiterati e convinti.
RAUL RADICE, Il Giornale d'Italia, Roma, 30 Luglio 1959
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