Miracolo danese
Lo spettacolo in Italia, almeno a giudicare dalle pagine estive di molti quotidiani, sembra delegato a occuparsi solo della dentatura del polemico Gianfranco Funari, delle Silicon Valley ovvero del "seno di poi" delle più o meno rifatte soubrette e vallette televisive, mentre persino il Vaticano lancia sacrosanti anatemi contro l'orrenda vicenda del Teatro di Roma, che è stato capace di produrre deficit più rilevanti, storici e memorabili di tutti i suoi spettacoli. E poi di certi allestimenti estivi, anche collocati in festival prestigiosi, sarebbe più opportuno che a far le recensioni fosse, direttamente, il giudice Di Pietro, visto che la loro principale urgenza culturale risulta alquanto "tangente" rispetto alla drammaturgia contemporanea.
Ma c'è anche, da quarantasei anni, un piccolo e dignitoso festivalino, la Festa del Teatro di San Miniato, che senza tanto clamore e senza sgomitare, propone una sua linea ben precisa di "teatro dello spirito" che anche un laico può apprezzare e stimare.
Vi sono stati allestiti i grandi classici di questo genere: da Assassinio nella cattedrale di Eliot a Il potere e la gloria di Graham Greene, da I dialoghi delle Carmelitane di Bernanos a L'ostaggio di Claudel a Il poverello di Copeau e, oltre agli ineluttabili testi cattolici di Diego Fabbri e Ugo Betti e a un doveroso Giobbe di Wojtyla allestito da Krzysztof Zanussi, gli organizzatori hanno aperto a testi problematici di matrice protestante ed ebraica.
Quest'anno è toccato a un testo luterano come Ordet che ha ispirato il film di Carl Theodor Dreyer nel 1955 e prima ancora, nel 1943, quello di Gustav Molander. La versione teatrale è stala scritta nel 1925 dal danese Kaj Munk, pastore protestante ucciso dalla Gestapo a trentasei anni perche scriveva e predicava contro l'invasione nazista.
Mario Scaccia regista, interprete e adattatore del testo per San Miniato, ha molto sforbiciato e semplificato la controversia religiosa tra i seguaci di Nicolai Gruntvig e quelli della setta dei "pietisti" che dividono la Chiesa luterana danese: la dicotomia, almeno per chi non è esperto di teologia, consiste in una concezione più liberatoria della religione, ispirata a un cristianesimo primitivo, e a una, all'opposto, che si rifà a una interpretazione ascetica della pratica religiosa.
Per un pubblico di cultura cattolica, le sottili disquisizioni potevano risultare forse un po' troppo divaganti, anche se il conflitto tra ascetismo e liberazione ricorre in tutte le religioni, quella cattolica non esclusa. Sicché le due famiglie del patriarca Mikkel Borgen (Scaccia infonde al personaggio una religiosità bonaria e terrena) e di Peter il
sarto, che abitano vicine di casa ma lontane spiritualmente, asciugate dai loro problemi religiosi, finiscono per assomigliare ai Capuleti e ai Montecchi perché la figlia dei pietisti ama, riamata, il figlio dei gruntvighisti ma il rigore del sarto proclama che questo matrimonio non s'ha da fare.
In più, uno dei figli del patriarca Borgen è convinto, per un malinteso senso di colpa in seguito alla morte accidentale della fidanzata, di essere Gesù Cristo. E arriva infatti in scena con gli occhi scavati, lo sguardo ispirato, una sciarpa penitenziale lunga fino a terra, proclamando: «Sono Gesù di Nazareth». E poi: «Sono stanco dei vostri baci da trenta denari». Solo che a dire queste battute imbarazzanti per qualunque interprete che non stia recitando nel Re dei re o nel Vangelo secondo Matteo è un giovane attore, David Gallanello, al suo debutto professionale, bravissimo e autorevole. Non stupisce che con il carisma sovrannaturale di cui investe Johannes, compia il miracolo di resuscitare Inger morta di parto. Come dire che solo la follia della fede, al di là della ragione, permette il miracolo e il rapporto diretto con Dio.
RITA CIRIO, L'Espresso 30 agosto 1992
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