Un carro di fantasmi per scuotere le coscienze
La sera di martedì 17 luglio abbiamo partecipato alla 38° Festa del Teatro di San Miniato al Tedesco, in provincia di Pisa.
La Festa è iniziata con una conferenza-stampa, che il direttore artistico don Maco Bongioanni ha aperto, facendo rilevare come l'opera che stava per essere messa in scena — Oltre le trincee, di Fabio Storelli — fosse ancora una volta la prova che l'Istituto sanminiatese del Dramma Popolare, presieduto dall'illuminato comm. Vallini, aveva definitivamente accolto la tesi bernanosiana del « tutto è grazia ».
NEL RICORDO
Infatti, Oltre le trincee è un testo di non facile ascolto (non diciamo per ora di non facile lettura, perché ancora non pubblicato), ma, soprattutto, un testo che supera veramente molte trincee, perché pone una serie enorme di problematiche, al limite della eresia, sempre comunque nella sfera della profezia.
E' quanto ci hanno confermato l'autore Storelli — attualmente dirigente di RAI 3 — ed il giovane regista Alessandro Giupponi, cresciuto alla scuola e nell'amicizia di Franco Enriquez, al cui ricordo ha offerto in questi giorni a San Miniato un « omaggio » con una mostra iconografica e fotografica, e, soprattutto, con una serata a più voci, presente una schiera di attori, tecnici e critici, che nell'occasone, hanno pure ricordato il grande Diego Fabbri, a cinque anni, come del resto Enriquez, dalla sua scomparsa.
LA PROFEZIA
Nella sfera della profezia, dicevamo.
Ed, infatti, Storcili ha realizzato questo testo quasi come un centone di espressioni e di momenti estatici, raccolti dall'epistolario di padre Teilhard de Chardin, teologo e scienziato francese, morto a New York nel 1955, dopo che certe sue intuizioni, « profetiche » appunto, avevano destato più di una perplessità nell'establishement cattolico.
Teilhard, infatti, ritiene con forza che la creazione non sia finita, anzi, vada sempre più migliorandosi, al punto che anche l'evoluzione fa parte di una visione divina del cosmo, il quale, alla fine, tornerà a « riassumersi » in Cristo, pensiero e realtà ultime, cui arriverà la scienza e la teologia (lo stesso Teilhard, nell'opera interpretato da Carlo Hintermann), ma anche la fede semplice e serena (la dolce cugina Margherita, interpretata con soavità da Mattine Brochard), il popolo tutto (presente con i soldati in guerra e con i mimi di un « carro di Tespi»), anzi l'ateismo stesso (il capitano Bouchard, interpretato da Virginio Zernitz).
L'AUTONOMIA
Una sintesi finale, dunque, davvero cristiana, perché riporta al centro, non solo della vita, ma addirittura della morte (non per nulla la vicenda è inserita nel contesto della 1° Guera Mondiale, vissuta direttamente fra le trincee di prima linea), il volto, il nome, ma, soprattutto, il messaggio di Cristo.
Un messaggio che si scontra dunque con una prima antinomia: quella della rabbia degli uomini, in guerra fra di loro. Ma che, soprattutto, perché più intimamente, si scontra con una seconda, e più intima, e quindi più drammatica, antinomia, quella delle tre tentazioni evangeliche: la natura, la carne, e la ragione.
Per far questo, Storelli ha messo a confronto sant'Antonio del deserto, così come appare da un'opera di Flaubert, e la satanica figura del raziocinio e della fantasia scatenata, presente contemporaneamente nella persona di Ilario, discepolo di sant'Antonio, e del capocomico da sagra di paese, ambedue mirabilmente interpretati da Virginio Gazzolo.
Così Teilhad-Antonio si trova fra le strette della terribile realtà (la guerra), del dubbio raziocinante (il discepolo Ilario), della scatenata sensualità (la Regina di Saba del « carro di Tespi »), da un lato, e delle Sacre Scritture, della dolcezza (Margherita), ma, soprattutto, della fede, dall'altro lato.
OLTRE I FIUMI
Che riesca vittorioso lui, Pierre Teilhard, sarebbe quasi ovvio pensarlo.
Ma a quale prezzo?
La scenografia, essenziale e stupenda, di Alessandro Giupponi e Beppe Improta, che ci da una trincea carsica, su una base di vetri debolmente illuminati dal basso, ma sempre luminosi, la scenografia dicevamo è decisamente funzionale alla scelta dell'autore e del regista. Infatti, sullo sfondo naturale della sera sanminiatese, là dove la piazza del Duomo sfocia nella vallata dell'Arno, si vedono questi uomini in guerra passare, urlare, cadere e morire tra fiumi, crepitii di mitraglia, tonfi di granate. Veramente, l'umanità è in guerra, con se stessa, ma anche con tutto ciò che non vuole o non sa accettare.
LA BIANCA MARGHERITA
E che alla fine deve accettare, perché i fantasmi evocati, i diavoli oscenamente visibili, le elucubrazioni ghignanti del Tentatore, tutto resterà sconfitto da questa straordinaria « visione teilhardiana », « oltre le trincee »: che tutto e tutti, cioè (compresi Budda e Maometto, chi si scrivere e chi è analfabeta, chi sa parlare e chi è diventato muto per le vicende belliche), tutti « saremo ricapitolati », cioè riassunti, fagocitati, immedesimati in Cristo. Quasi una metamorfosi finale, ma nella gioia e nella pace.
Che si arrivi a questo, lo spettatore di quest'opera straordinaria, anche se non perfettamente proporzionata, lo può ricavare anzitutto da un episodio scenografico: la dolce Margherita, cugina di Teilhard, ed a cui egli scrive e parla e narra tutte le sue vicende, nel primo tempo veste un lungo abito nero, ma nella seconda decisiva parte è in scena con un luminoso abito bianco, che a momenti occupa tutta la scena, insieme con la sua prorompente dolcezza e serenità, di chi i problemi li ha superati o va superandoli.
C'è poi un passo del testo, un passo troppo importante perché non abbiamo a tentare di ricordarcelo: « Non è tra essere o non essere il problema — dice Teilhard — essere è il problema. Chi non è, non ha problemi ».
Ed infine — ed è questo il vero nocciolo di questa avventura sanminiatese 1984 — c'è la chiusa: non tanto le Comunioni date da Pierre ai soldati che vanno a morire, ma piuttosto, il « Credo », che lo stesso Pierre inizia a recitare sotto la violenza delle cannonate, che riprendono a cadere, davanti al morto capitano Bouchard, mentre sembra che anche l'umanità sia definitivamente impazzita, al punto che anche le « tentazioni di sant'Antonio », con tutta la loro fantasia rutilante o i loro drammatici, razionali interrogativi, sono del tutto e definitivamente scomparsi.
E' la fede che vince tutto, e che fa vedere deli e terre nuovi, al di là di ogni trincea di tempo, di spazio e di natura.
TUTTO BENE?
Gli applausi finali dei critici e dei teatranti, presenti all'« anteprima » sanminiatese di martedì 17, sono dunque giustificati. La stessa difficoltà di scrittura di un testo così, con l'inserimento del « teatro nel teatro », con una visione della realtà ad incastro (non per nulla il « carro di Tespi » reca anche un sarcofago orientale, che si apre come una scatola cinese), con una continua uscita dalla realtà per i lidi della fantasia e della tentazione, ma, soprattutto, con un continuo passaggio, fuori del tempo e del luogo, da sant'Antonio abate a padre Teilhard, da Pierre soldato alla cugina Margherita, dalia carnalità corposa di Elaubert alla ricerca profetica di Teilhard de Chardin; tutto questo può giustificare quanto di meno valido abbiamo intravisto nell'opera di Storelli: la lunghezza da ridimensionare della « pièce », una maggiore « teatralità » da ridare anche al primo tempo, ed uno snellimento e ridimensionamento dei troppi problemi, messi a fuoco dall'autore. Anche certi personaggi forse andrebbero rivisti: pensiamo al capitano Bouchard, probabilmente troppo convenzionale in un momento di così alto lirismo; il pade Duval (interprete Massimo Palazzini), guizzante ma inesistente, perché poco credibile in se stesso; il soldato muto, che poi parla (o abbiamo mal sentito?), e danza con Margherita.
Il « carro di Tespi » è efficace: ma forse lo spettatore ha bisogno di esservi preparato, perché non sembri il consueto « deus ex-machina ».
Anche la colonna sonora andrebbe a volte diminuita di intensità, nel mentre non avrebbe nociuto un palcoscenico più alto di un mezzo metro almeno.
Ma, soprattutto, c'è da augurarsi che San Miniato non dia più opere che non si possano poi rileggere con calma e con attenzione: il teatro visto passa, il teatro « rivisto », perché riletto, rimane.
Bartolo Fornara L'Azione, Novara, 28 Luglio 1984
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