«Magic» ovvero... in sette alla ricerca di un miracolo
Un medico positivista, un duca strampalato, un solerte segretario, un mago ex-giornalista, un prete filantropo; e ancora, una fanciulla imbevuta di leggende celtiche e un nipote tornato dall'America per un totale di sette personaggi in cerca di un miracolo. Sette interpretazioni, sette cuori che si interrogano con tutte le manie, i tic e le intuizioni del nostro secolo ritratti come solo Chesterton sapeva fare. È questa l'intelaiatura drammaturgica di Magic, la commedia di Gilbert K. Chesterton per la prima volta sulle scene italiane dal 21 al 26 luglio in occasione della 49° Festa del teatro a San Miniato.
Magic, commedia «fantastica, in tre atti», la prima di Chesterton, fu rappresentata per la prima volta nel 1913 al Little Theatre di Londra, rivelandosi subito un successo. Eppure Chesterton è passato alla storia quasi esclusivamente per I racconti di Padre Brown, le avventure del tozzo e scarmigliato curato di campagna che basa le proprie indagini sull'intuito psicologico e sulla profonda conoscenza della teologia morale e pastorale. Un «pretesto» in più, per l'Istituto del dramma popolare di San Miniato, per rendere giustizia anche al Chesterton delle commedie ignoto alla critica, anche la più raffinata: neppure Masolino D'Amico si ricorda di lui nel suo recente Dieci secoli di teatro inglese.
In Magic, diretto da Mario Scaccia, che già nel '92 aveva firmato a San Miniato la versione teatrale di Ordet, l'autore (che si convertì ufficialmente al cattolicesimo nel 1922, ma che già da lungo tempo si era avvicinato alla Chiesa Romana), non perde di vista la sua linea ed espone ancora una volta il tratto fondamentale della sua filosofia, cioè la convinzione che la credenza in «Dio e i demoni e quell'immortale mistero» sia essenziale per la comprensione della realtà e che, in qualche modo, vi siano legati anche quanti negano la dimensione soprannaturale della vita. In un universo culturale dominato dai retaggi del positivismo e di una certa concezione trionfante del razionalismo, Chesterton difende la possibilità che l'esperienza sia più grande degli schemi che si usano per descriverla e introduce l'idea della magia come possibilità per esplicare ciò che può risultare arcano e meraviglioso, come se il magico facesse parte della creazione.
Per questo pensò Magic con i suoi «tipi» umani che indagano su un gioco di prestigio inspiegabile per la ragione umana (come la trasformazione di una lampada da rossa a blu), operato dal finto mago che il duca ha ingaggiato per convincere la nipote dell'illusorietà delle sue convinzioni misticheggianti: ma si tratta solo un gioco di prestigio o di una manifestazione del sovrannaturale?
Ecco dunque interrogarsi sulla scena una galleria variopinta di personaggi per certi aspetti attualissimi: il medico che vede andare in tilt il bigottismo proprio del suo razionalismo, il prete che, nonostante tutto, palesa impietosamente la propria mancanza di fede, il pragmatico nipote d'America, negatore di qualsiasi realtà sovrarazionale. Infine il duca, così astratto, così lunare, che non può credere a qualcosa di semplice come un miracolo, che non prevede alcun genere di compromessi come quelli a cui è avvezzo. Un personaggio che, sebbene fuori dagli intrecci più profondi della commedia, riesce, nell'interpretazione gustosa e delicata di Scaccia, a far dimenticare le prestazioni non proprio straordinarie degli altri attori, alle prese con un testo a volte fragile che cede troppo spesso alla retorica e al gusto retro di certe scene come il lieto fine eccessivamente sdolcinato e scontato, nonostante il lavoroo di forbici operato dal regista.
Cinque personaggi, questi, che ruotano intorno ai due principali: il mago, portatore di una tenera umanità, e Patricia, la nipote del duca, la vera eroina della commedia: avendo creduto al semplice quanto inaspettato prodigio dell'amore, alla fine risulta la chiave della commedia. Ed è proprio Patricia che richiama alla mente, quanto a personalità, quella di Chesterton. Quando, dopo la sua morte, gli amici cercarono di esprimere il lato peculiare del suo pensiero, poterono solo ricorrere a goffe espressioni come «è sempre rimasto un bambino», quasi fosse una sorta di Peter Pan. Era un modo per dire che aveva mantenuto la capacità di stupirsi. «Ciò che è meraviglioso nell'infanzia è che tutto è meraviglioso» scrisse Chesterton in un celebre passo della sua Autobiografia. «Non è semplicemente un mondo pieno di miracoli; è un mondo miracoloso». Quanto aveva definito la sua «prima e ultima filosofia» lo aveva appreso da bambino: «Le cose in cui credevo e credo più fermamente, allora come adesso, sono le cosiddette fiabe. Le fiabe a me sembrano del tutto ragionevoli. Non sono fantasie: al loro confronto, ogni altra cosa è fantastica. Se paragonati a loro, la religione e il razionalismo sono anormali, per quanto la religione sia anormalmente giusta e il razionalismo anormalmente errato. La Terra delle Fate non è altro che l'assolato Paese dei Buon Senso».
Una simile affermazione, oggi, potrebbe indurre il lettore ad approfondire lo studio di Chesterton, ma potrebbe anche sortire l'effetto contrario, se chi legge la considerasse uno di quei paradossi di cui spesso lo scrittore è accusato. Forse egli avrebbe obiettato: «È facile lasciare che il mondo faccia di testa sua; il diffìcile è conservare la propria».
LORELLA PELLIS, Toscana Oggi 30 luglio 1995
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