La recensione
La sordità di un popolo privato della libertà
Ci vuole un certo coraggio (quel tipo di coraggio che consiste nel non aver paura di andare contro corrente) per ricordarsi, in un tempo come il nostro che glorifica l'irrazionale ad ogni pie' sospinto, che il sonno della ragione genera mostri e che questi mostri si chiamano fantasmi, violenza, repressione. Lo aveva detto, nei tempi bui che seguirono in Spagna la restaurazione post-napoleonica, uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, Francisco Goya, che dedicò a questo tema uno dei periodi più aspri, ossessivi e «neri» della sua pittura; e se ne è ricordato oggi, rifacendosi direttamente a Goya, un drammaturgo spagnolo dei più rappresentativi, Antonio Buero Vallejo.
Cinquantaquattrenne, condannato a morte e poi graziato al tempo della guerra civile, Vallejo ha alternato un' attività di pittore a quella di autore di teatro, imponendosi recentemente all'attenzione della cultura europea. Del teatro di Vallejo si è già avuto un saggio proprio qui a San Miniato, tre anni fa, quando venne rappresentato il "Concerto di Sant'Ovidio", dramma ambientato in un ospizio per ciechi nel quale la cecità era assunta come simbolo di una condizione umana. Qui, nel dramma intitolato "Il sonno della ragione", di cui Maria Luisa Aguirre d'Amico ha curato un'agile versione italiana, il tema di partenza è analogo: al centro c'è il personaggio di Goya, ma soprattutto la condizione di sordità nella quale si trovò a partire dai quarantacinque anni. L'isolamento del pittore, la sua tendenza a popolare quella solitudine di ossessioni e visioni nelle quali il bagliore del genio si mescolava oscuramente ai lampi della follia, sono trasferiti da Vallejo su un piano più ampio di quello puramente autobiografico.
Goya è visto nel 1823, nel momento in cui la sua contrapposizione con la Corte del despota Ferdinando VII e il suo pessimismo sulla società del proprio tempo, erano giunti alla massima intensità. Chiuso nella sua villa di campagna in compagnia di Leocadia, la donna che aveva sposato la sua solitudine e gli aveva dato due figli, Goya dipinge tele sempre più allucinanti e si rifiuta di piegarsi alle sollecitazioni minacciose del monarca che non gli perdona la sua orgogliosa ostilità. Intorno la Spagna è sommersa da un'ondata di oscurantismo. La sordità di Goya, nel dramma di Vallejo, assurge ad emblema di una generale condizione della sua gente: la sordità di un popolo privato della libertà, ridotto a soffrire in silenzio e condannato a rifugiarsi soltanto nella paura. La paura è il sentimento che sotterraneamente anima la pittura di Goya, popolata di mostri e visioni allucinate: e il dramma di Vallejo, in molti punti, è un tentativo di interpretazione di alcune grandi opere di quel periodo dalle quali trasuda, insieme, lo strenuo spirito di ribellione e di satira e l'angoscia di una condizione che appare senza uscita.
Questa angoscia alienante finisce per travolgere il protagonista che Vallejo vota a una conclusione buia: vediamo Goya piegato dal lungo isolamento, dai contrasti con Leocadia, dalle intimidazioni morali e fisiche dei suoi nemici, abbandonare la sua intransigenza e apprestarsi ad impetrare il perdono del monarca. La ragione, la «divina ragione», sembra sempre più sprofondata nel suo sonno oscuro, anche se una battuta del dramma accenna all'attesa di un'alba che non potrà tardare.
Il dramma di Vallejo è centrato su questa passione morale e civile, i cui riferimenti all'epoca attuale (peraltro non troppo insistiti, forse per intuibili ragioni politiche) è inutile sottolineare. Scritto con una tecnica tutto sommato abbastanza tradizionale, esso ha per punto debole un impianto che propende più verso l'arazzo storico che non verso il dibattito d'idee. Tutta la zona riguardante i rapporti del protagonista con Leocadia, e in particolare la scena finale, in cui prima egli minaccia di ucciderla in un accesso di gelosia e poi bruscamente riconosce di essere stato disumano, sfiora i limiti di un patetismo che mal si accorda con il carattere asciutto del personaggio. Ma in altri punti l'idea-guida del dramma si snoda con lineare schiettezza: e su questo binario l'ha perspicuamente condotta la regia di Paolo Giuranna, ispirata in uno sforzo di lucidità razionale e centrata sul prevalere delle inquadrature soggettive del protagonista: ogni volta che Goya è presente in scena gli altri personaggi, anche parlando tra loro, aprono bocca senza emettere suono: simbolo di una condizione opposta a quella del protagonista, di gente che parla ma non può farsi udire, di modo che gli interlocutori più validi del colloquio vengono ad essere le immagini di una pittura che di per sé tende al grido e alla protesta.
Decisamente positiva anche la prova degli interpreti principali. Pensiamo soprattutto ad Aroldo Tieri, cui era commesso il non facile compito di impersonare un Goya ultrasettantenne, ingabbiato nel muro della sordità. Tieri è riuscito a compiere in modo encomiabile una doppia trasmutazione: ha assunto senza manierismi i connotati fisici e vocali di un personaggio da lui distante, e si è inventato con naturalezza, lui abituato al registro brillante, i toni ruvidi e drammatici del protagonista di Vallejo. E pienamente centrata, in un'ardente mescolanza di scatti irruenti e ritegnose tenerezze, era Giuliana Lojodice.
Accanto a loro vanno ricordate la delicata apparizione di Carla Greco, che impersonando la nuora di Goya sembrava uscire da una delle prime tele del pittore, e la presenza di Mino Belici (un prelato a metà strada tra la ragion di stato e l'amicizia per il pittore), Giancarlo Becherelli (un medico liberale), Pietro Biondi (un monarca isterico e vendicativo) e poi Giancarlo Bonuglia, Gabriele Carrara, Liliana Sorrentino, Giancarlo Ciccone e Leonardo Pantaleo. La sobria scena di Gianfranco Padovani serviva da geometrico supporto alle diapositive che riproducevano le immagini di Goya, via via chiamate a partecipare all'azione. La festa sanminiatese del teatro, animata dalla passione di don Giancarlo Ruggini, è giunta alla sua ventiquattresima edizione: una bella prova di continuità per un teatro che spesso vive, o è costretto a vivere, alla giornata.
RENZO TIAN II Messaggero, Roma, 26 Agosto 1970
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