Un «cocktail» biblico miscelato da Fabbri
« Se Cristo non fosse risorto, la nostra fede sarebbe vana ». Il grido dell'apostolo Paolo, e la sua sfida agli ateniesi nell'Agorà, è stato il tema e il fulcro dello spettacolo col quale a San Miniato, sabato sera, si è celebrata per la 34' volta la « Festa del dramma sacro ».
In quel grido e nel famoso discorso dell'apostolo all'Areopago d'Atene, consistette la sfida e lo scandalo del Vangelo a tutto il mondo pagano, la sua provocatoria « inattualità » evangelica.
« Al Dio ignoto » rappresenta per Diego Fabbri il traguardo e la catarsi ideale d'una « discesa all'inferno » da lui recentemente vissuta sia per motivi di salute che per una ricerca iniziata con « Processo a Gesù », proseguita con « Veglia d'armi », e che ora si conclude con « Al Dio ignoto ». Finora il Cristo di Diego Fabbri era soprattutto l'uomo della croce e della sofferenza, l'uomo della morte. Qui è il Dio della resurrezione. Nulla dunque di più « attuale » di questa scandalosa « inattualità » di fronte al mondo neopagano.
Fabbri ha in questo dramma tentato esistenzialmente e teatralmente una ricapitolazione di quanto è andato dicendo in quarant'anni di servizio al teatro e alla cultura, soprattutto con « Processo a Gesù ». Ma fa sempre più teatro interrogare la croce e la morte e rappresentarle nel dramma degli uomini di ogni tempo, di quanto non faccia, soprattutto in resa teatrale e culturale, la resurrezione. La croce e il « fallimento » in Cristo e nell'uomo sono l'evidenza del limite, del dolore, della morte. La resurrezione è il mistero, l'inevidenza, appunto lo scandalo. Colti a bruciapelo, tutti ì torti gli ateniesi non li avevano quando gli chiedevano di rimandare il discorso.
Fabbri ha scritto e vissuto questo dramma come un « ex voto » d'uomo e di credente, e la sua fatica è stata strenua e coerente. Ma tuttavia non siamo qui davanti al suo momento più autentico e teatralmente risolutivo. Il gruppo degli attori della Compagnia del Capranica ha fatto la propria parte, con Andrea Bosic nei panni e nella tensione spirituale di Paolo, con Gianrico Tedeschi, che da qualche anno troviamo puntualmente a San Miniato, con Bianca Toccafondi tutta passione e tenerezza, urlo e gemito, e altre attrici e attori. Forse ha pesato sulla chiarezza, sui temi e la immediatezza dei suggerimenti del dramma proprio lo scrupolo, pur nobile, di Fabbri di ripercorrere tutto il proprio iter di testimone e « intervistatore » di Cristo nelle pieghe più imprevedibili e contraddittorie della coscienza dell'uomo contemporaneo. Benché già sfoltito in sede di allestimento scenico, il dramma di Fabbri potrebbe molto guadagnare da un'ulteriore coraggiosa potatura di ripetizioni, situazioni e contenuti sempre espliciti e apologetici.
Il canto di Vera Gherarducci (« E' passato il tempo... ») col quale l'opera si apre a modo di coro e salmodia, non fa altro che ripetere il dramma singolo che ogni protagonista-attore porta dentro di sé per confrontarsi sulla luce e sul mistero di Cristo. Splendido l'inserto di teatro nel teatro preso da Blok, « I dodici ». Indimenticabile per sublime desolazione e amarezza di testo e grandezza di interpretazione la « Leggenda del grande inquisitore » di Dostojecskij, detta da Tedeschi, ma anch'essa isolata, quasi dirottante, proprio nella sua straordinaria evidenza, dal vero fulcro del tema fabbriano.
E' soprattutto inutile, a mio parere, il cocktail di passi biblici, canonici e apocrifi reinventati da Fabbri, che gli altri attori rivivono, recitandoli, come confronto coi momenti sia della passione, morte e resurrezione di Cristo, sia del dramma della loro personale ricerca di identità umana e artistica. Tutto questo grava eccessivamente sul finale dell'opera con una preponderanza di recuperi di teatro nel teatro che non avvantaggia l'intensità della parte centrale veramente geniale e di straordinaria suggestione. Sarebbe bastata ad un finale molto più persuasivo e coinvolgente una sola battuta come quella che un attore rivolge a Guido, il cercatore più misterioso e prestigioso impersonato da Tedeschi, verso la fine (« Guido, è mancata la luce... » e Guido: « Tornerà, tornerà... ») per dire più e meglio di circa mezz'ora di sacra rappresentazione secondo i moduli volutamente popolari della nostra più scontata tradizione.
La domanda è ancora una volta la stessa, dopo trentaquattro anni di fatica dei cattolici nella manifestazione annuale di San Miniato. E' teatro popolare, è dramma « sacro », sin dove, e perché lo è o non lo è? E' splendida tutta la parte dove il gruppo degli attori che stanno come ricostruendosi e rivivificandosi in una nuova dimensione umana e artistica, e ognuno si interroga spietatamente se sia in definitiva possibile consacrarsi in ogni dimensione « Al Dio ignoto », cioè risorgere, fuori delle leggi del successo, del potere, dell'applauso, del consumo, rispondendo alle sfide ddl'« intervistatore » (Italo Dall'Orto, a cui Fabbri ha prestato a quanto pare tutti i propri risentimenti e veleni nei confronti della tv e dei mass-media, e lo ha fatto persino con eccessiva « cattiveria »). Assecondato in questo, bisogna riconoscerlo, da una regia coerentissima, ma quasi accesa di luce immota, senza uscite d'imprevedibilità e di fantasia, com'è appunto quella di Orazio Costa Giovangigli.
L'assunto di Fabbri è di estrema contemporaneità: in un tempo d'apocalisse nera, cioè di morte pianificata dell'uomo e dei rapporti umani, dove trovare e vivere l'apocalisse « bianca », cioè la trasfigurazione e la resurrezione dopo « la discesa all'inferno »?
Allora, esiste o non esiste oggi il « teatro popolare »? Se lo sta domandando, a San Miniato, sorpattutto il nuovo direttore dell'Istituto del Dramma Sacro, padre Marco Bongioanni, un « animale » da teatro di grinta sicura e di lunghissima e solida esperienza: decenni di critica teatrale e cinematografica, duecento documentati al proprio attivo. Bongioanni è successo dal maggio scorso a don Luciano Marrucci che dal '76 al "79 aveva occupato questo delicato e problematico posto di responsabilità.
Oggi anche la tv, i mass-media, una cultura comunque diversa se non ancora nuova, rendono certo più leggibili al pubblico anche medio opere come questa di Fabbri, e anche esperimenti d'avanguardia, siano teatro gestuale o vecchio teatro della parola rivistato. Ma sul termine popolare è probabile che si debba fare ancora un lungo cammino, e magari senza esito, in una materia sempre ambigua e contraddittoria come d'altronde ogni vero fenomeno culturale e di poesia.
Ma chi ha fatto, chi potrà fare oggi teatro popolare, sia pure in questo senso più o meno aggiornato? Bongioanni ha in mente per i prossimi anni un allargamento della festa di San Miniato con altre opere parallele e integrative a fianco dell'opera di preminenza. Da una « festa », insomma, si dovrebbe giungere ad un « festival », sia pure contenuto in misure qualitativamente sempre rigorose. Sono pronti però a questo, non solo a San Miniato, i cattolici italiani attenti e responsabili del problema? Pronti o no pare che solo loro possano farlo. A dirlo non è, fra i molti, un cattolico, ma un regista marxista come Mario Missiroli che ha risposto ad una intervista, prendendo lo spunto dal problema, dalle speranze e dalle difficoltà di San Miniato: « Nel campo laico la cultura resta renitente a diventare popolare. Non credo che arrivi prima. Credo che arrivi prima la Chiesa, se vuole ». Gli incoraggiamenti in questo senso ai cattolici di buona volontà non mancano. Si è saputo che è stato lo stesso papa Wojtyla a far coraggio a Fabbri durante la convalescenza e la stesura dell'opera; da uomo di teatro a uomo di teatro. Sabato sera Wojtyla era soltanto spettatore morale, a San Miniato. Ma c'era il cardinale Benelli, insieme a Paolo Ghizzoni, vescovo di San Miniato. Ma basteranno segni come questi, pur incoraggianti, perché un teatro sia veramente popolare, e colga nel segno il nuovo nel sacro quanto in realtà si propone d'essere e di operare?
Nazareno Fabbretti Gazzetta del Popolo, Torino, 28 Luglio 1980
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